Four Brothers

Il regista John Singleton torna al genere d’azione di strada duro e tormentato con “Four Brothers”, un film che in parte riguarda un misterioso omicidio, quello dell’angelica Evelyn Mercer, ed in parte è la realizzazione di un desiderio d’analisi sociale, che si compie quando i quattro figli della donna si riuniscono per far luce sull’assassinio e attuarne la doverosa vendetta, arrivando a colpire sia tra i bravi cittadini che tra i peggiori gangsters di Detroit, sottolineando l’amara realtà delle nuove giungle urbane, ovvero che i confini tra onestà e corruzione, tra legalità e reato sono pressoché aboliti.
Muovendo da echi vagamente western, difficile non menzionare l’analogia con i fratelli che si riuniscono per il funerale della madre ne “I quattro figli di Katie Elder”, “Four Brothers” mischia con maestria il senso di giustizia che anima i cuori dei quattro protagonisti e l’irrefrenabile istinto di vendetta che arma le loro mani.
Ritrovatisi per le esequie, i fratelli Mercer realizzano in breve tempo che la morte dell’adorata madre adottiva non è stato un incidente dovuto al caso: qualcosa non sembra tornare nelle spiegazioni date loro dai poliziotti che li han raggiunti al funerale e che li tengono già d’occhio visto il passato burrascoso dei quattro avanzi di galera salvati dalla peggiore delle sorti dalla caritatevole Fionnula Flanagan. Con poche ma efficacissime sequenze, che vanno dall’esilarante al super-commuovente , Singleton non ha paura di rallentare il ritmo per mostrare di cosa è composto il legame genuino tra questi fratelli sui generis, che non risiede certo nel sangue o nel DNA, essendo tutti adottati, due bianchi e due neri, ma piuttosto ha le sue radici nell’infanzia violenta e disperata prima e nella “redenzione” dell’amore materno poi.
Bobby, Angel, Jeremiah e Jack sono fratelli perché si sentono e si comportano come tali, non perché fosse una condizione connaturata alla loro esistenza, come a dire che il rapporto tra loro è più forte di qualsiasi altra cosa perché non è un dato a priori, bensì è un vincolo cercato e voluto, al pari forse del cameratismo fra militari dopo mesi trascorsi insieme nelle situazioni più difficili. E non credo sia fuori luogo parlare di soldati, visto la violenza, la caparbietà ed i metodi intimidatori con cui minacciano, interrogano ed eliminano tutti coloro che intralciano il loro piano di vendetta privata.
A questo punto si innesta la parte più fast&furious della pellicola, e probabilmente anche la più inverosimile, ovvero inseguimenti tra auto a velocità folli sulle strade ammantate di neve, sparatorie interminabili in pieno giorno in mezzo alla strada, pestaggi e minacce a base di benzina e accendini a piccoli gangster di periferia come ad assessori comunali e ricchi avvocati. Il tutto senza la benché minima remora, né uno sguardo indiscreto da parte di qualche passante o di qualche vicino, senza il minimo accenno di reazione da parte della polizia locale che sembra incapace o disinteressata a fermare il dilagare della follia vendicativa dei Mercer. In un susseguirsi di esplosioni, sparatorie e brandelli di informazioni, il plot, che non verrà svelato qui, si infittisce di colpi di scena non sempre logicamente facili da seguire fino a scoprire il reale mandante dell’omicidio di Evelyn Mercer, con conseguente svolta e sequenza shock finale, con un combattimento a mani nude sul lago ghiacciato da urlo.
Assoluto punto di forza del film sono le interpretazioni degli attori protagonisti, che non solo sembrano divertirsi e sentirsi molto a loro agio nei rispettivi ruoli, ma restituiscono con estrema veridicità il calore del legame fraterno che li unisce, in una città stretta nella morsa del gelo umano prima di quello atmosferico. Su tutti emerge un fantastico Mark Wahlberg dotato grande senso dell’umorismo ma capace anche di venature malinconiche e sofferte, nel ruolo di Bobby, il maggiore e il leader naturale del clan Mercer, appena uscito di galera per rissa deciso forse più di tutti alla vendetta e con un grandissimo istinto protettivo nei confronti del più giovane, Jack, il biondo e pallido Garret Hedlund, lo sfortunato Patroclo di “Troy”, capace di ritrarre un personaggio difficile, in bilico tra adolescenza ed età adulta, fragile ma non certo debole. A completare il quadretto familiare Angel, ex marine interpretato con sexy veemenza da Tyrese Gibson, cantante R&B, modello e attore feticcio di Singleton (Baby Boy, 2 Fast 2 Furious) ed il convincente Andrè Benjamin, l’Andrè 3000 degli OutKast, che continua la sua rapida ascesa cinematografica dopo “Be Cool”, in attesa di “Revolver” e “Charlotte’s web”, che interpreta Jeremiah, l’unico ad aver messo la testa a posto e messo su famiglia nella speranza di aprire una sua attività immobiliare.
Ancora una volta la bravura di Singleton è quella di riuscire a togliere i protagonisti da nicchie classificatorie che facilmente porterebbero a stereotipare i personaggi in cliché: il leader, il latin lover, il redento ed il giovane rocker. Iniziamo a conoscere pian piano i fratelli Mercer quando si ritrovano nella casa materna vuota dopo il funerale, mentre mangiano il tacchino della cena del Ringraziamento o mentre scherzano in bagno o fanno la lotta in soggiorno come ragazzini, che seppur cresciuti e induriti dalla vita piangono più del previsto e dialogano con la madre in sogno.

Certo, se lo si prende troppo sul serio, “Fuor Brothers” può sfiorare l’assurdo o l’irreale, ma se inserito nel più vasto e tollerante settore dell’entertainment, si scopre un prodotto tosto, godibilissimo, estremamente adrenalinico e splendidamente interpretato, nonché molto ben costruito e curato in tutte le sue parti, dove la tensione drammatica e l’orchestrazione delle sequenze più spettacolari sono sempre sotto controllo. Ad esempio l’inseguimento da cardiopalma tra le auto sotto la neve sulle strade ghiacchiate o la sparatoria che crivella casa Mercer sono girate in modo eccezionale e, in linea con il sapore anni Settanta - Ottanta della pellicola, fa rimpiangere la verosimiglianza e la genuinità che avevano gli action movie quando la computer grafica non aveva ancora sostituito il duro lavoro degli stunts. Avvolta dalle stupende note di Trouble Man di Marvin Gay e dai trascinanti classici dei Motown, si erge monumentale, triste deserta e desolata una Detroit invernale, tutta nelle tonalità del bianco e del grigio più gelide, ricostruita in modo superbo dal direttore della fotografia Peter Menzies Jr e dallo scenografo Keith Brian Burns.


Marta Ravasio

Four Brothers

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