Texas

Texas: periferia dell’anima

Un gruppo di ragazzi festeggia tra bagordi e svogliato divertimento. La casa di un'amica, una sera come tante, una scena vista mille volte, qualche eccesso, le solite balle. Ma tra una birra e una battuta, tra gli sguardi annebbiati dal fumo, serpeggia la rabbia, il livore latente di esistenze marginali, periferiche, che emergono trascinando con sé amicizie tradite, amori negati di generazioni castrate che collassano improvvisamente, caricando una pistola, vomitando violenza e umiliazioni. Tutto e niente sarà come prima, nel panorama desolato di una periferia d’Occidente chiamata Texas.
Fausto Paravidino regista, "io narrante" e voce fuori campo della storia (nel ruolo di Enrico) mette in scena i suoi personaggi in cerca più che di un “autore”, di una coscienza, che permetta loro di “capire” di prendere atto della propria realtà per arrivare ad accettarla. Senza che ci sia per forza bisogno di un “quarto atto” (di qui i riferimenti a Cechov), di una parola fine, di una limitante, quanto meschina morale. Una commedia umana che in realtà guarda alla vita più che al teatro e come la vita stessa rimane spesso incompiuta, tutta da rifare, e ripensare con la sola consapevolezza di ciò che è stato.
Dalla scena Paravidino prende l’impianto, la stilizzazione forse un po’ troppo marcata (si veda il personaggio stralunato e forse troppo naif di Cinzia/Iris Fusetti o le figure caricaturali di “Oklahoma”, “Coma”, “Tranquillo”, “Picchiami”) dei personaggi (al limite dello stereotipo) per ritrarre una realtà che è il prodotto di tre generazioni “…una generazione contadina che ha visto la guerra (i nonni), una generazione industriale che ha visto il Boom (i genitori) e una generazione che ha visto la televisione (i figli).”
Una periferia ibrida ed estranea a se stessa come i suoi protagonisti sempre in procinto di partire e andare chissà dove per poi rimanere sempre lì, nel limbo, a capire il senso di un trapasso sociale, economico, culturale, che si è compiuto senza che nessuno se ne rendesse conto lasciando un dazio da pagare, un istinto animalesco gretto e rurale (“non siamo mica bestie noi”, sbraita Aldo Baretti, il padre di Gianluca), e una voglia spesso ingestibile e pericolosa di riscatto sociale.
Così ti ritrovi il meccanico-padroncino-arricchito e un po’ boss con la mania della politica (un impagabile Teco Celio, il contadino partigiano bastonato e ricco con i soldi nel materasso per paura di perdere la propria identità, la maestrina frustrata (una sempre affascinante e dolente Valeria Golino) che non ha avuto il coraggio di andarsene con la propria libertà, il marito-sottomesso (un misurato e intenso Valerio Binasco, da lui rrivano “illuminazioni” più belle del film) e figli vitelloni di questa generazione balorda, più balordi e repressi dei padri-padroni e delle madri servili e accondiscendenti (la madre premurosa di Davide, quella mediatrice di Gianluca e quella impassibile di Cinzia), quei bravi ragazzi incapaci di esprimere i propri sentimenti come Davide (Carlo Orlando) o di imporre il coraggio delle proprie azioni come Gianluca (un sorprendente Riccardo Scamarcio, per la prima volta in un ruolo di leader paradossalmente fragile, debole, volutamente sottotono).
La loro caratterizzazione finisce inevitabilmente per sembrare eccessiva, macchiettistica, a tratti sopra le righe (lo sfigato, Davide, il bullo di provincia Gianluca con l’auto elaborata) come può sembrare eccessiva la deformazione, la devianza, di immagini reali ed autentiche. Come può sembrare orripilante la banale quotidianità, svelata improvvisamente, come una bestemmia detta da un bambino alla maestra, e diventa un sasso che colpisce dritto al cuore del bigottismo, del conformismo di una società bene educata ma fortemente castrata.
In questo forse Texas è eccessivo, quasi caricaturale, “teatrale” quanto la vita può essere plateale. Ma è proprio grazie a questa stilizzazione che il giovane regista riesce ad affondare la mdp nelle piaghe dell’esistenza dei suoi protagonisti, lampi su squarci di vite smarrite, indecise, indolenti, con una brutalità talvolta spiazzante, con uno sguardo spesso tanto crudo da essere intollerabile, insostenibile, perché percepito come eccessivo, "iperrealistico".
E il regista assieme ai coprotagonisti e sceneggiatori Carlo Orlando (Davide) ed Iris Fusetti (Cinzia) disegna con grande determinazione (e con un’ambizione autoriale a tratti debordante) geografie di vite, sobborghi di esistenze, scenari di intimità.
Perché alla fine Texas è soprattutto un film di paesaggi, di orizzonti piatti e “confinati”, di strade sempre uguali che seguono percorsi fisici e interiori, “periferie” dell’anima, che trae ispirazione e nuovo significato da citazioni e rimandi iconografici molto densi, capaci di dare al film una grande potenza visiva (grazie anche alla fotografia sporca di Gherardo Gossi, Velocità massima, Il partigiano Johnny) che vanno dalle quasi panoramiche sul “brulicare umano” delle citazioni di Pieter Bruegel (si veda il respiro dell’inquadrature finale in cui i protagonisti avanzano sulla neve alla stregua dei Cacciatori nella neve del pittore fiammingo) alla stranianti fisse “scene di strada” e ai sospesi interni di Edward Hopper per “inchiodarsi” su dettagli “macro” delle immagini “iperrealiste” memori della fotografia di Martin Parr in cui le microscopiche e apparentemente insignificanti vite dei protagonisti assurgono a diventare nella loro periferia, nel loro essere “marginali” e spesso ambigue figurine, un immane vissuto, attraverso la dilatazione della realtà, al limite del grottesco.
E come le istantanee deformanti di Parr l’occhio di Paravidino finisce per diventare una spietata lente d’ingrandimento che inquadra l’umanità come un insetto inerme in tutta la sua ordinaria mostruosità.


Ilaria Serina

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