L'educazione fisica delle fanciulle

Nelle campagne della Turingia, in un eden di cascate e boschi lussureggiati, si nasconde l’inferno di un collegio femminile, prigione di belle maniere guidata dall’irreprensibile direttrice Jacqueline Bisset. Le scarpette da ballo danzano leggere sul tempo rigoroso di severe lezioni di danza e bon ton, mentre l’innocente candore delle punte si scioglie in sangue, passo dopo passo, in una scia di fatica, dolore e violenza.
Inizia con questa azzeccata metafora visiva sui titoli d’apertura il film “The Fine Art of Love” di John Irvin, nato da una sceneggiatura di Alberto Lattuada e Ottavio Jemma (dall'omonimo romanzo di Frank Wedekind), un’immagine forte, rigorosa che assieme all’immagine severa che accompagna le prime sequenze e l'incedere inquietante di Jacqueline Bisset, fa pensare di trovarsi di fronte ad un’opera di grande rigore, memore delle pellicole tragiche ed essenziali del grande maestro appena scomparso.
Ma l’illusione svanisce ben presto assieme ai sogni ad occhi aperti delle sei fanciulle protagoniste, assorbite ben presto da un vortice di disillusione, violenze e autodistruzione. E svelando le molte incognite di questo film. A partire dallo scenario, il famigerato collegio, locus amoenus delle violenze della storia, che appare fortemente decontestualizzato, pressoché privo di coordinate spazio-temporali, e di ogni riferimento storico (conosciamo l’ambientazione dalle note di produzione). Con il risultato di dar vita ad una specie di mondo di fanciulle sperdute in cui l’unica immagine di concreta reale intensità viene data dalla protagonista, una feroce e misurata Jacqueline Bisset (spalleggiata da una feroce Galatea Ranzi e dalla brava Silvia De Santis) che avrebbe meritato sicuramente un contesto migliore, nonostante il film annoveri firme davvero illustri, come Dante Ferretti autore delle scenografie e Roberto Perpignani al montaggio.
Quasi inevitabile rapportarsi a “Magdalene”, un altro film "veneziano" (Leone d'Oro nel 2003) che aveva saputo raccontare in modo spietato e limpido la violenza nei confronti delle donne (sia pur in un contesto religioso e culturale più complesso) all’inizio del secolo scorso, riuscendo davvero a scuotere le coscienze e a turbare gli animi. Ma qui le fanciulle-lolite sembrano uscite da una selezione di veline e gli unici turbamenti che affiorano sono quelli suscitati dal tentativo di capire il senso di questa “diseducazione” fisica e morale. La violenza del film finisce così per essere fine a se stessa, mentre la storia si perde tra banali amori saffici e perversi rapporti fra educande e istruttrici, con rimandi ad un passato nebuloso e segreto (che rimarrà tale...), in un crescendo di triste degrado morale fino al voyeristico balletto finale (brutto per non dire altro), con la prima ballerina, piccola addormentata nel bosco dell’ingenuità, affidata alle mani di un preverso e pervertito principe violentatore.
Un’immagine che sulla carta (a livello di sceneggiatura) avrebbe potuto chiudere un’amarissima parabola sulla perdita dell’innocenza innescando una profonda riflessione (mai vana e sempre necessaria) sulla complessa tematica storico-sociale della condizione femminile, ma che finisce per concretizzarsi in una meschina quanto superficiale storia di soprusi, al limite del fantastico e lontana anni luce dalla sua tragica realtà.


Ottavia Da Re

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