Romanzo criminale

C'era una volta in Italia

Un gruppo di ragazzini di borgata ruba un auto dai quartieri bene della Roma opulenta e fugge seminando morte e rabbia verso un sogno che non c’è. Sullo sfondo concitato rimbalza il ritmo trascinante di Io ho in mente te, hit dell’anno ’66. “Cos’ho nella testa, cos’ho nelle scarpe…” cantano in coro mentre la macchina prende velocità saltando posti di blocco. “Ho voglia di andare…di andarmene via...” è il pensiero di tutti, ma la polizia li insegue catturandoli uno dopo l’altro mentre il più piccolo, ferito a morte, cade chiamando i compagni che non torneranno. E la voce di Maurizio Vandelli continua a scandire note di un’infanzia già bruciata.
Quella dei giovani di borgata, dei ragazzi di vita di pasoliniana memoria, cani sciolti, vite randagie dai nomi suggestivi come il Libanese (Pierfrancesco Favino) che sogna di imitare i grandi imperatori “de Roma”, il solitario Freddo (Kim Rossi Stuart), l’elegantone Dandi (Claudio Santamaria) che vuole comprare la villa dove la madre si è ammazzata di lavoro facendo la serva, il fascista Nero (Riccardo Scamarcio) e la sua filosofia nichilista, o lo sciroccato Bufalo (Francesco Venditti), tutti amici di sangue e componenti di una delle gang più sanguinarie del nostro paese, la famigerata banda della Magliana.
Un gruppo di efferati assassini e spacciatori che dagli anni ’70 ai primi anni ’90 ha attraversato la nostra storia, intrecciando le proprie “gesta” con i servizi segreti (da cui venivano spesso usati), con la politica, la mafia e ogni malaffare di casa nostra, diventandone parte.
Romanzo criminale è la storia di questi ragazzi, e di un intero paese.
Michele Placido, che aveva esordito come attore nei primi anni ’70 con Romanzo popolare di Monicelli, trent’anni dopo torna dietro la mpd per Romanzo criminale e per raccontare quegli stessi anni con lo sguardo maturo di un regista che guarda al passato con lucidità raccontando uno spaccato di cronaca e di storia italiana. Partendo dalle vicende “particolari” dei suoi personaggi, dal piccolo mondo della borgata romana ai segreti di un intero stato e di una nazione spesso vittima di se stessa.
E lo fa con grande onestà e passione, mettendo da parte le ambizioni metafisiche di Ovunque sei e ritornando al dramma storico popolare di Del perduto amore e alle lacerazioni di Mary per sempre, affidando la complessa e densa materia narrativa tratta dallo splendido romanzo del giudice Giancarlo De Cataldo (qui anche co-sceneggiatore) ai suoi protagonisti, tagliando, semplificando e contenendo in modo coerente e sottile gli avvenimenti, la storia, le psicologie dei personaggi a cui è affidato il punto di vista principale e il ruolo di raccontare se stessi, dando vita ad un film corale, attoriale, giocato su primi piani strettissimi, sull’intensità di volti che la fotografia fosca di Luca Bigazzi (Le conseguenze dell'amore, Le chiavi di casa) fa spesso emergere dall’oscurità di ambienti chiusi ricostruiti senza eccessi (il casolare del Libano, il night “Full ‘80”, l’appartamento di Patrizia) rifugi della banda e nascondigli delle sue anime nere.
Personaggi tragici, eppure così veri, in cui la “romanità” (condivisa dagli stessi attori protagonisti) diventa un elemento fondamentale per ritrarre una realtà più ampia ed racchiudere nella popolarità, l’italianità di quegli anni, che non è l’italianità di Scorsese, ma quella più violenta e autentica degli sceneggiati degli anni ’70 sanguinari e rudi nati sulle strade de er monnezza Tomas Milian e della Roma violenta di Maurizio Merli, quei B-movie sdoganati da Tarantino e che di cui Romanzo criminale si riappropria, risalendo le radici di un cinema che più che ai goodfellas italoamericani (di cui semmai mutua le degenerazioni rabbiose di Ferrara, vedi Fratelli) guarda con reverenza al Leone di C’era una volta in America (come non pensare ai protagonisti James Woods e Bob De Niro per la costruzione del rapporto tra Freddo e Libano?) e ai cupi tragici eroi viscontiani di Rocco e i suoi fratelli (i riferimenti al rapporto morboso con la prostituta Annie Girardot sembrano evocati dall’intreccio tra Anna Mouglalis, Accorsi e Santamaria) a tutta quella cinematografia sociale dei vari Petri, Damiani, Rosi, Bellocchio che hanno saputo dare al nostro paese un ritratto sprezzante, difficile, ma al contempo autentico.
A dare loro volto ma soprattutto sguardi e anima il meglio della nuova generazione del nostro cinema, la “mejo” gioventù italiana, guidata dai tre capi che caratterizzano i tre blocchi-capitoli in cui è diviso anche il film. Si va quindi dalla passione di Pierfrancesco Favino (El Alamein), il Libanese, "leader maximo" della banda, alla rabbia gelida del Freddo, glaciale, Kim Rossi Stuart, innamorato del candore di Roberta (Jasmine Trinca) fino al più eccentrico del gruppo, il Dandi, un superlativo Claudio Santamaria (L’ultimo bacio) che riesce trovare un’interpretazione caratterizzata ma mai sopra le righe, passando per il Nero, misterioso e defilato killer, cui Riccardo Scamarcio conferisce grande espressività.
Una banda a cui si oppone il commissario Scialoja Stefano Accorsi, qui in un ruolo davvero “antipatico”, piuttosto meschino (a cui si possono accostare quelli del dimesso ma bravo Gianmarco Tognazzi, nel ruolo di Carenza e dell’impagabile “uomo di stato” Toni Bertorelli), di antieroe falsamente buono destinato a soccombere alla forza negativa e al carisma degli eroi maledetti tra cui ricordiamo anche l’affascinante prostituta Patrizia/Anna Mouglalis (già in “Merci pour le chocolat” di Chabrol), ma anche Francesco Venditti (Bufalo), Antonello Fassari (Ciro Buffoni), er patata Roberto Brunetti (Aldo Buffoni) ed Elio Germano (Il sorcio).
Ma è la coralità di tutti questi interpreti, la loro diversità e al contempo la stessa animosità a creare la forza del film, che cresce con il loro grande affiatamento.
Una densità di emozioni e avvenimenti filtrati visivamente dalla fotografia di Bigazzi ma scanditi e accompagnati dai violoncelli di Paolo Buonvino (L’ultimo bacio) e da un uso non convenzionale e spiazzante della musica che per la suggestiva soundtrack (che siano sicuri andrà a ruba) si avvale di pezzi tipici degli anni ’70-’80 ma usati in modo originale: da Sweet dei Ballroom Blitz ad Another One Bites the Dust dei Queen, passando per le canzoni del “Califfo” amato da Dandi e La bambola di Patty Pravo, fino alla bellissima cover di “I Heard it trough the Grapevine” di Marvin Gaye cantata da Giorgia che chiude il film. Brani spesso abbinati a momenti tragici e concitati in una combinazione dissonante che trae grande effetto dalla sua straniante drammaticità.
Ma ciò che più di tutto colpisce nella costruzione del film è senz’altro l’uso narrativo del montaggio vorticoso (assieme alla sceneggiatura di Placido, De Cataldo, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, la chiave della riuscita del film) di Esmeralda Calabria (Un viaggio chiamato amore, Fuori dal mondo) che riesce a creare rapporti e collegamenti tra sequenze diverse, alternate magistralmente per raccontare eventi apparentemente slegati tra loro (evitando senza l’uso di dialoghi o inutili scene di raccordo), ma fortemente connessi, che acquistano grande significato e impatto emotivo grazie all’inserimento davvero coerente di alcuni filmati d’epoca (dalle immagini del rapimento e dell’uccisione di Moro, a quelle della strage di Bologna, fino al ferimento del Papa e ai Mondiali dell’82), perfettamente amalgamati alla finzione cinematografica, come una cerniera, un collante che diventa a tratti un contrappunto lacerante, un flash abbagliante sulla nostra storia (un procedimento simile a quello usato in Buongiorno, notte di Bellocchio), monito su cui continuare a riflettere anche e soprattutto oggi, perché come dice il Freddo “le cose che ci appartengono se ne vanno prima di noi” nel vortice autodistruttivo che travolge tragicamente tutto, i colpevoli e gli innocenti.
Resta l’amarezza, quella che nella scena finale del film il protagonista cerca di esorcizzare in un lampo di illusione e di attimi irrimediabilmente perduti, sognando una storia diversa, (come la protagonista di Buongiorno, notte immagina la liberazione di Moro) ritornando a quel un gruppo di ragazzini in fuga, a quei nomi strozzati in gola che diventano un grido di aiuto e di libertà, poco prima che la morte avvolga tutto nel buio della sua inesorabile fine.

Ottavia Da Re

Riferimenti bibliografici:
Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, Einaudi Sile Libero, Torino, 2002.

Approfondimenti:
Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2005.
Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti Libri, Milano, 2000.


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