Inside Man

In un monologo in piano americano, a camera fissa, Dalton Russell (Clive Owen) illustra come e perchè ha concepito una geniale complessa operazione di rapina ad una delle banche più antiche e celebri di New York; con una teatralità vagamente antica, l'antefatto viene ricostruito, pur senza precise indicazioni temporali sulle distanze di flash-back e flash-foreward, in poche e immediate battute. Ma le cose non sono quelle che sembrano. E a rendersene conto sarà alla fine Keith Frazier (Denzel Washington), il negoziatore chiamato ad intervenire per tentare di trovare un accordo con i rapinatori e salvare gli ostaggi detenuti a forza all'interno dell'edificio. L'intrico delle forze in gioco si rivelerà più fitto del previsto.
Perché a tutti gli ostaggi è stato chiesto di indossare identiche tute blu con cappuccio? E chi è la misteriosa lady (Jodie Foster) inviata dai piani alti della politica newyorkese per un patteggiamento privato con chi ha organizzato la rapina? Più che duro e immediato, lo stile di Spike Lee diventa qui rapido e quasi psichedelico (soprattutto nei titoli di testa e dell'incipit); veloce, qua e là leccata (in molti dei passaggi con la Foster), la narrazione gioca con il tempo nel costruire il mistero avvalendosi anche dello sfasamento temporale che - non è una novità - viene segnalato da mutamenti stilistici di tipo visivo. I flash-forward (o flash-back, se si tiene come unico riferimento il monologo iniziale) che mostrano la polizia interrogare tutti i sospettati (e sospettati lo sono tutti, identici sotto le tute e i cappucci) sono presentati con virate di stile che peggiorano la grana della pellicola, investendola di una luce verdastra per ottenere l'effetto di una fastidiosa claustrofobia.
Cosa è vero e cosa non lo è, chi è pulito e chi no: gli opposti sfumano l'uno nell'altro, il piglio un po' bolso del detective che convive con gli impasti dei potenti alla lunga stanca se paragonato alla dura coerenza di un rapinatore che alla fine non tocca un quattrino e non è il mostro che sembra. E quando gli interessi cozzano, i dettagli diventano essenziali per trovare il bandolo della matassa.
Il marchingegno del giallo di Lee (nato nella sceneggiatura di Russell Gewirtz) è arrangiato in modo puntuale, traccia in maniera nitida i confini del quadro, lascia la suspense del thriller fuori fuoco per fingere di dare un indizio di partenza bifronte, reinterpretabile a mistero chiarito.
Se coi potenti si devono fare i conti, l'idealismo trova spazio in atti sovversivi. E Inside Man sembra proporre questa idea accentuando l'ambiguità dei protagonisti, dipingendoli con attraenti chiaroscuri; solo il personaggio del negoziatore di Washington resta smitizzato dal risaputo ritratto della sua vita privata (la compagna sexy che non si decide a sposare, la faticosa carriera in una professione difficile), lasciando alle figure di Owen e della Foster tutto il magnetismo elusivo che accende l'interesse.
Purtroppo Spike Lee non sa mettere da parte lo stereotipo e fatica a uscire dal cliché delle differenze etniche pur all'interno della stessa cultura e di un sistema sociale che plasma e acuisce l'ambizione umana. Il protagonista di colore si concede da solo una battuta di dubbio gusto sulla distinzione razziale (apostrofa Madeline, il personaggio della Foster, con "Baci il mio culo nero" durante una discussione), con polemica più attuale - e meno banale - un ostaggio rilasciato durante l'interrogatorio lamenta la difficoltà di avere origini mediorientali dopo l'11 settembre. Le dinamiche interne al corpo di polizia, poi, sono presentate con una dose extra di routinario e arcinoto, tanto da risultare carenti in originalità.
Ma ben concepito è l'intreccio sottile, validamente supportato da interpreti come Clive Owen e Jodie Foster. Owen sa mascherare dietro la dura e risoluta immobilità la ferita di un personaggio inaspettatamente complesso, mostrando ancora una volta lo squisito pedigree di un interprete di razza fra i migliori della generazione; la Foster riscopre il ruolo della dura d'acciaio con un'ottima dose di divertimento e spavalderia, ben giocando sul contrasto fra l'impeccabile eleganza formale e l'indole dura e sgradevole. Fra gli altri, si fa notare Willem Dafoe nel ruolo che è quasi un cammeo del capitano John Darius, comandante dell'Unità Mobile d'Emergenza.
E, accanto alla discutibile attualità o novità della riflessione, a Inside Man resta il registro quasi virtuoso di un racconto che muove la mdp con solerzia e puntualità, inscenando un percorso per tappe in cui, fra qualche patacca, brilla senza dubbio almeno la tecnica.


Alessandro Bizzotto

Inside Man

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