Io non ho paura

Io non ho paura di Gabriele Salvatores è un film delicato e profondo. Una poesia. Si presta a letture diverse e ci lascia liberi di scegliere da quale angolo porci e come interpretarne la storia. Una storia in cui dunque non siamo solo spettatori. Vi abbiamo preso e Vi prendiamo parte. Come in un gioco di specchi siamo attori nella vicenda narrata e siamo registi che ne possono definire lo sviluppo. Un film che ci ricorda e ci chiama.

La vicenda è quella del sequestro di un ragazzino, tenuto incatenato in un anfratto d'un cascinale abbandonato. E attorno gioca e si misura un gruppo di coetanei come noi abbiamo fatto: innocenza, curiosità, paure, domande. Sullo sfondo una natura stupenda. Dolci colline a frumento. Distese biondeggianti di messe matura e macchie di papaveri e altri fiori di campo. E la vita esplode in quei campi: i ragazzi li percorrono in libertà mentre animali minuscoli o spaventosi alimentano la loro immaginazione.

Il film insiste, quasi si trattiene su questa cornice di natura e adolescenza. Trattiene la storia che matura e si sviluppa per piccoli passi. Prima ci mostra l'ansia e la fatica degli adulti, le loro relazioni e i loro modelli e sogni, e poi la frenetica ricerca di scorciatoie. Cosa desiderano gli adulti? E come lo desiderano? Possiamo immaginarlo: una libertà senza progetto e senza limiti, e quindi il denaro che ne è strumento e simbolo. Un desiderio che rompe l'equilibrio della cultura e degli affetti e trova innesco in un certo degrado della realtà vissuta e in una certa solitudine in cui l'adulto si ritrova. E anche qui il film accenna ma non forza, non trancia sentenze. Non dà risposte certe, decise. Non fa ragionamenti (quante falsità nel nostro ragionare!). Ci mostra come siamo e ci dà alcuni riferimenti.

Il film va visto e non andrò oltre nella storia se non per portare fino in fondo la mia personale interpretazione. Ho detto che è una poesia. Ci cattura, ci tocca nel sentire, mette in moto una parte di noi forse atrofizzata, poco valorizzata e utilizzata. Invita a riflettere e procedere in un modo nuovo, che non separi. Non separi l'adulto dal bambino, la natura dalla civiltà, gli uni dagli altri, il benessere materiale (e il denaro) da un certo equilibrio personale (un progetto). E forse anche il dire bene dal coraggio di fare bene.

A quale scopo? Per quale fine? Affinché la nostra vita non si riduca al lavoro delle trebbiatrici che, nel film, irrompono sulla scena senza rispetto per il misterioso mondo vitale della natura. Ma neppure la tecnica - che con fredda incoscienza va all'assalto delle possibilità senza darsi cura delle conseguenze, senza risponderne - è ritenuta colpevole. La scena finale è infatti illuminata dall'arrivo di un elicottero dei carabinieri. Così non abbiamo scampo. Esistono responsabilità ma non colpevoli.

E allora mi sembra che il film di Salvatores ci inviti a fare ciò che auspica James Hillmann in "Il potere" (Rizzoli 2002): coltivare il potere di fermarsi ed entrare in noi stessi per andare in fondo ai problemi; diventare eroi della discesa, maestri della maturità e non maestri di negazione; persone che sanno reggere la tristezza e restare fermi nelle situazioni difficili. Che poi è ciò che letteralmente dice il titolo del film.


Francesco Bizzotto

Io non ho paura

Vai alla scheda del film

home news Ciak! Si gira... interviste festival schede film recensioni fotogallery vignette link scrivici ringraziamenti credits

Settimanale di informazione cinematografica - Direttore responsabile: Ottavia Da Re
Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Venezia n. 1514/05 del 28 luglio 2005
Copyright © www.quellicheilcinema.com. Tutti i diritti sui testi e sulle immagini sono riservati - All rights reserved.