Lost in La Mancha

Dio mio, quant'è fragile un processo creativo. Quant'è difficile fare un film.
Ogni minuto di Lost in La Mancha sembra ricordarcelo.
Quando, nel 1999, il regista Terry Gilliam (L'esercito delle 12 scimmie) iniziò la pre-produzione del lungometraggio The Man Who Killed Don Quixote, un film dedicato al celebre personaggio di Cervantes, chiese a Keith Fulton e Louis Pepe di girare un documentario sulla realizzazione del progetto.
Un progetto decisamente ambizioso, quello di un regista noto per le sue idee estrose (fu lui a dar corpo e colore ai deliri di Johnny Depp e Benicio Del Toro in Paura e delirio a Las Vegas) che aveva racimolato in Europa 32 milioni di dollari di budget per girare in Spagna quello che doveva essere un kolossal-fantasy.
Un'idea di difficile realizzazione, che fin dalla fase di pre-produzione si configurava come un tentativo rischioso. Le fantasiose idee di Gilliam incontravano la perplessità anzichè l'entusiasmo della troupe e del crew. Gli attori scritturati, da Jean Rochefort - scelto per il ruolo del protagonista - a Johnny Depp e Vanessa Paradis tardavano a farsi vedere sul set per le prove; a poche settimane dall'inizio della lavorazione non erano nemmeno stati firmati tutti i contratti. E quando, finalmente, le riprese sembravano poter avere inizio, una serie di difficoltà e problemi di natura diversa frenavano la lavorazione. Un violento temporale devastava la location dei primi ciak, problemi di salute costringevano Rochefort a far ritorno in Francia.
Fino all'irreversibile tramonto del progetto. Un naufragio rovinoso che lasciava Gilliam con una manciata di minuti di girato e tanta amarezza.
Ottanta ore di filmati e interviste realizzate durante la lavorazione al film mai completato hanno permesso a Fulton e Pepe di produrre ugualmente il documentario sulla pellicola mai girata.
Il primo documentario sulla mancata realizzazione di un film.
Un documentario che, se non altro, arriva a somigliare a un avvincente reality-show, pur con tutte le - numerosissime - differenze del caso. Il 'combattimento' di Gilliam contro i suoi mulini a vento (metafora, questa, che si spreca in un simile contesto) acquista la vitalità di una storia a tutto tondo, che non si limita a solleticare la curiosità del cinefilo appassionato.
Esattamente come un film, quindi; più di un semplice documentario. Come se il nostro Don Quixote, alla fine, l'avessimo ugualmente. Non nelle fattezze di Jean Rochefort, ma in quelle dello stesso Gilliam. Di nuovo la solita, facile metafora.
Ma è una metafora che cade quanto mai bene, quasi inevitabile quando ci troviamo davanti a uno dei registi più innovativi e indipendenti del cinema contemporaneo alle prese con una 'missione impossibile'. Un regista che coltiva nella sua mente idee grandi, ma per alcuni pazze, e che si trova, come Quixote, a terra, disarcionato. Dall'impossibilità di rendere visibile un simile progetto, faraonico per risorse in cui sta stretto? O dalla sfortuna?
E alla fine abbiamo un Gilliam ferito davanti al crollo, proprio come Quixote rinsavito nel finale della storia. Triste. E come Lost in La Mancha suggerisce, a noi è simpatico l'eroe nella sua folle lotta contro i mulini; non quello rassegnato, cosciente. Così, forse, finiamo per preferire il Gilliam pieno di entusiasmo davanti ai costumi finiti o alle battute provate da Rochefort; non quello malinconico che vede il fumo levarsi dalle macerie.
Anche se ci chiediamo quanto abbia ragione la costumista Gabriella Pescucci che, davanti ai suggerimenti di Gilliam sul set di The Man Who Killed Don Quixote, esclama:
"Bisognerebbe tagliargli le idee... cut his ideas!".


Alessandro Bizzotto

Lost in La Mancha

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