Alila

Amos Gitai ci porta direttamente ai confini di Tel Aviv, nei sobborghi di una città dove pulsa, si agita e vive il cuore della comunità israeliana. Alila racconta le diverse storie che si intrecciano in un vecchio e popoloso appartamento di periferia dove Hezi (Amos Lavie) ha preso un appartamento per amare e nascondere la sua giovane Gabi (Yael Abecassis), il vecchio Schwartz (Yosef Carmon) vive la sua quotidiana routine assieme alla sua giovane filippina Linda (Lyn Shiao Zamir), Aviram (Lupo Berkowitch) vive solo con il suo inseparabile cane mentre la loro vicina Ronit (Ronit Elkabetz) fa il diavolo a quattro pensando di essere odiata da tutti. Fra urla e minacce, la donna decide di ampliare gli appartamenti commissionando il lavoro ad un artigiano, Ezra (Uri Ran Klauzner), separato da Mali (Hanna Laslo), con cui ha avuto un figlio che non vuole entrare nell'esercito...
Solitudine, passione, insofferenza, solidarietà pullulano tra le claustrofobiche pareti dell'edificio dove la mdp di Gitai è attenta a cogliere, rivelando un'affinità con il cinema di Robert Altman, il brulicare dei suoi inquilini, in un clima che quasi soffocante, labirintico, dove, a dispetto dei personaggi (spesso opposti tra loro o "isolati" dalla segretezza come Gabi) ogni appartamento aprirsi agli altri.
E' la diversità che crea la comunità, quella composta dall'amante fatale e segreta, dal vecchio ebreo insofferente e catastrofista, dalla poliziotta paranoica e dai piccoli lavoratori, come la manodopera cinese clandestina e Linda, l'evanescente cameriera filippina, realtà sociali emarginate e silenziose che il regista riesce a far emergere nel suo variegato quadro sociale d'insieme con brevi ma significative inquadrature (come quando Linda che interrompe le faccende di casa per suonare un'aria malinconica al piano).
Alila, come ha sottolineato il regista, è "Una metafora, in cui una città è contenuta in un piccolo edificio". Una tavolozza che mescola drammi, realtà e quotidianità che offre di Tel Aviv un quadro di autentica modernità, che richiama in parte la prospettiva utilizzata dal regista per il contributo a 11 settembre 2001 e si oppone, in modo quasi simmetrico, alla tradizione e al rigore di Kadosh, di cui Alila eredita la protagonista, Yael Abecassis, in un personaggio anch'esso diametricamente opposto a quello interpretato in Kadosh (con cui Alila condivide anche i luoghi delle riprese). E non è un caso. Gitai infatti, dopo aver dipinto una figura femminile pura, etera, spirituale, vuole dare qui un'immagine diversa della donna israeliana, una donna emancipata, libera, anche se soggiogata dall'amore, diversificata in tante donne, madri come Mali, ma capaci di lasciarsi alla spalle un marito rassegnato e vivere senza illusioni con un uomo più giovane.
Donne che vivono conflitti interiori, costrette a sopravvivere alla violenza che le circonda, ad un maschilismo che le condiziona. Un universo ben esplorato e descritto, grazie anche al fascino e alla sensualità di Yael Abecassis e alla forte personalità di Hanna Laslo e Ronit Elkabetz. Tre figure che nelle ultime immagini del film (che si riallacciano splendidamente al piano sequenza iniziale in cui Ezra e il figlio cercando di capirsi in un furgone che diventa tramite tra il mondo interiore e la caotica realtà esterna) sembrano veicolare i conflitti di un'intera comunità, "intossicata" e monopolizzata dalla guerra (i comunicati che gracchiano continuamente dalla radio) ma che dimostrano anche di saper guardare avanti, superare un amore finito, lottare per propri figli, lasciarsi andare ad una pioggia purificatrice che libererà la rabbia, flirtando con la speranza e la voglia di rinascita.


Ottavia Da Re

Alila

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