Twentynine Palms

E' diventata ormai consuetudine, ad ogni festival cinematografico, la presenza del tanto paventato film scandalo: quello della 60° Mostra del Cinema di Venezia è stato, o forse è meglio dire, sarebbe dovuto essere Twentynine Palms. II regista Bruno Dumont, qui al suo terzo film dopo "L'Età inquieta" e "L'Umanità", ci trasporta a bordo di una jeep attraverso il deserto di Joshua Tree in California per condurci a 29-Palms, nome della poco ridente località che diventerà il teatro, forse fin troppo asfittico, dove i due protagonisti si ameranno, si sopporteranno, si odieranno.
Fotografo di professione, David parte per un sopralluogo, anche se tale argomento viene appena sfiorato nel film, in compagnia della donna che lo ama, consumando le poche scene "d'azione" in amplessi no-limits, per così dire, aggrappati come freeclimber sulle enormi rocce del deserto californiano, in assetto variabile durante una nuotata nella piscina del motel oppure in una stanza di quest'ultimo, provocando grida e ululati di piacere da parte di lui che neanche un lupo mannaro americano a Londra sarebbe stato in grado di emettere. Certamente, non è tutto questo ad aver scandalizzato il pubblico, quindi a metà del film ci chiediamo ancora dove sarà lo scandalo, anche perché fino ad ora non è successo granchè, esclusione fatta per i momenti di intimità dei protagonisti. Nel frattempo apprezziamo i paesaggi donatici da un buon lavoro di fotografia ed alcune inquadrature che hanno però il difetto di dilungarsi troppo. Per cercare di capire meglio la storia bisogna, però, soffermarci di più sui due protagonisti, che poi sono gli unici dell'intero film, eccezion fatta per un'incursione nel finale, che non verrà certo qui svelata, confidando nella curiosità e nel coraggio di chi vorrà andarlo a vedere.
Lui americano e parla inglese, lei russa ma comunica in francese, potrebbe sembrare questa una fase pre-doppiaggio come spesso accade nei film ai festival dove attori di nazionalità diverse recitano ciascuno nella propria lingua, ma non è questo il caso: questo doppio linguaggio è voluto, come ha dichiarato lo stesso Dumont, per amplificare la difficoltà di comunicare dei due protagonisti. Quindi i dialoghi, quando esistono, risultano, allo spettatore ignaro, strampalati e a volte dei veri nonsense, barlumi di coerenza si hanno solo quando fra i due si devono prendere decisioni elementari quanto banali, quali dove andare, cosa mangiare, cosa fare. Compito della cinepresa è di seguirli in ogni cosa, cercando di creare, secondo le ambizioni del regista, una suspence che dovrebbe farci presagire che qualcosa di terribile e sacrificale stia per accadere rendendoci spettatori di sprazzi di litigi di questa coppia "anormale" che per futili motivi provocano le ire di lui ed i piagnistei di lei. Poi tutto si ricompone come se in loro prevalesse come unico linguaggio quello degli sguardi e dei sensi, collegandolo non certo velatamente al piacere intenso del sesso come atto puro d'amore.
Ma il pericolo è dietro l'angolo o, per meglio dire, si annida tra le strade polverose fatte di terra e sassi, di rada vegetazione che si adatta ad un ambiente ostile, quasi evocando la tragedia che si sta per consumare e, infatti, dopo quasi due ore di film accade l'impensabile ma, sebbene la drammaticità della sequenza sia forte e inusuale, ha l'effetto certamente involontario di provocare divertimento per un preludio del finale all'altezza dell'intero film, dove i momenti di umorismo "accidentale" si sono sprecati, …tanto materiale da poterci fare un film!... ooopss! Dei due attori, Katia Golubeva e David Wissak, quest'ultimo alla sua prima apparizione sul grande schermo in tutta la sua nudità, va detto che, grazie alle lunghe sequenze che gli hanno regalato numerosi primi piani, avrebbero potuto sfruttare meglio l'occasione per farci apprezzare, se non altro, le loro doti espressive ma, sebbene siano molto telegenici, non sono riusciti a fare la differenza.
Non esiste colonna sonora (c'era da chiederselo?), eccetto una canzone stile ballata country, ma non si sa perché cantata in giapponese, che si ascolta quasi fosse una nenia durante i percorsi in jeep quando la scena si svolge nell'abitacolo.
Ora, per concludere, torniamo da dove avevamo cominciato: questo doveva essere il film scandalo della Mostra di Venezia, di sicuro Bruno Dumont ha voluto sperimentare un linguaggio e una narrazione lenta, troppo lenta, inconcludente, forse con l'ambizione di far riflettere il pubblico, ma non si sa bene su che cosa, per arrivare ad un finale a sorpresa e darci un pugno allo stomaco che, a dire il vero, non si accusa molto.
Le pellicole scandalose sono altre, producono emozioni che passano dal cuore al cervello e non transitano certo per il buco del culo del nostro protagonista.


Alberto Panichi

Twentynine Palms

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