Il mercante di Venezia

Un ebreo, non ha occhi? Non ha mani, un ebreo, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie, guarito dalle stesse medicine, scaldato e gelato dalla stessa estate e inverno di un cristiano?…Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?

Shylock, atto III

Sui ponti di una Venezia caotica e operosa mercanti e prostitute espongono i loro averi negoziando e barattando tra la folla chiassosa. Mentre a Rialto l’ennesima rissa si conclude con un tuffo in canale, il copricapo rosso di Shylock (Al Pacino), avanza tra i commercianti concitati cercando lo sguardo del mercante Antonio (Jeremy Irons) che sprezzante e altero sputa sul volto e sulla barba dell’usuraio tutta la sua indignazione. Nella Venezia del cinquecento, le gabbane degli ebrei si mescolano alle stole dei cristiani in un crocevia di merci, religioni e intolleranza.
Anche nella Venezia del sedicesimo secolo, la Repubblica Serenissima, città liberale e multirazziale, esiste un Ghetto, il più antico d’Europa, che ogni sera un catenaccio dal suono sinistro chiude, sbarrando le porte di una città e della sua apparente libertà.
Fra feste mascherate e pranzi luculliani, nel buio squarciato da poche fiaccole di gondole sinuose, giovani mercanti ed esuberanti nobili veneziani, trascorrono notti oziose e libertine, dietro maschere di apparenza e mistero, mentre le loro mercanzie viaggiano per mari lontani in balia di pirati e tempeste. Come il giovane Bassanio (Joseph Fiennes), pupillo di Antonio, affascinante e scialacquatore, per il deliziare il quale il mercante di Venezia sarebbe disposto a tutto, anche a farsi prestare denaro dall’usuraio più temuto della città, l’ignobile Shylock. Quando Bassanio racconta al generoso amico di una città, Belmonte, e della bellissima e ricca Porzia (Lynn Collins), in attesa del pretendente in grado di sciogliere l’enigma al quale è stata vincolata dalla volontà del padre, Antonio decide per l’ennesima volta di aiutare l’amico ad intraprendere il viaggio per conquistare l’amata ereditiera, impegnandosi in un patto con l’ebreo Shylock (Al Pacino), e promettendo una libbra della sua bella carne in caso di mancato pagamento della penale sottoscritta.
Inizia così la vicenda che porterà Bassanio alla corte di Porzia, alla fuga di Jessica (Zuleikha Robinson), la figlia di Shylock, con il cristiano Lorenzo e con i beni del padre e il dramma che porterà alla rovina di Antonio, costretto a pagare il proprio debito dall’ira funesta e vendicatrice di Shylock.

Il regista Michael Radford, autore dell'acclamato Il postino e del più originale, quanto sottovalutato Dancing at the Blue Iguana, decide di cimentarsi nella lettura cinematografica di quella che è forse la più complessa e ambigua (per varietà di registri e di tematiche) commedia di Shakespeare, in una trasposizione che, più che letteraria, si può definire assolutamente letterale del testo, della lingua e della struttura narrativa dell’opera.
Ma se da un lato la fedeltà sembra la strada scelta dal regista per affrontare in tutta sicurezza e senza rischi la materia shakespeariana, dall’altro si rivela il limite più grande di questo adattamento cinematografico, a causa della prospettiva assolutamente impersonale e, a tratti, banale con cui Radford si accosta al testo originale.
Un approccio a dir poco tradizionale, classico, privo della benché minima traccia di originalità, in cui la regia, forse per timore reverenziale, forse per paura di rischiare, si annulla, pedissequa, per mettersi al servizio del testo, attenta solo a riportare sullo schermo scene che sembrano “atti”, per rispettare i quali (non ci risparmia nemmeno la voce fuori campo nella scena 'clou' di Shylock che impreca sotto la pioggia), il regista si limita ad un esercizio scolastico, sterile, quantomeno inutile. Soprattutto alla luce delle innovazioni cinematografiche sperimentali e originali, memori di una tradizione consolidata (Laurence Olivier, Orson Welles) apportate alla materia shakespereana dai vari Kenneth Branagh (Hamlet, Molto rumore per nulla...), Baz Luhrmann (Romeo + Giulietta), e dallo stesso Al Pacino che, regista e attore in Riccardo III aveva saputo tradurre la forza vibrante del protagonista in un allestimento originalissimo, pur mantenendo la struttura e l’impianto “teatrale” del testo originale.
Non succede altrettanto nel Mercante, dove il rigore, il freddo approccio adottati dal regista, finiscono per vincolare, e soffocare il film in una sterile mise en scene, in cui non emergono le potenti tematiche che costituiscono l’anima della “commedia” fondamentali, a partire dal tema della diversità (fra ceti, classi sociali), dell’intolleranza e della fragilità umana; dell’amore, in tutte le sue forme (si veda anche il rapporto fra Antonio e Bassanio), della vendetta e della giustizia, (rappresentate da Shylock e Porzia), del travestimento (il camouflage dei diversi personaggi) che porta al continuo scambio tra realtà e fantasia (con la contrapposizione tra Venezia, città mercantile, materiale, profondamente umana e Belmonte, luogo onirico, fantastico, irreale) e quindi alla “finzione”, chiave e protagonista assoluta della commedia.
Conflitti e interrogativi umani ed immani, che aleggiano sulla rappresentazione, ma non emergono mai, spesso imbrigliati nell’oscurità delle complesse battute originali e nei versi troppo impostati e intonati per essere percepiti, sentiti nella loro tragica, ironica, profondità. Temi che nella loro straordinaria universalità, nella loro capacità di apparire drammaticamente moderni (basti il tema del conflitto religioso e dell’intolleranza) avrebbero potuto conferire al Il mercante di Venezia una straordinaria attualità.
Ma il regista sembra tenersi ben lungi dall’indagare e far emergere questi rapporti, attenendosi al testo, cristallizzandone l’unicità e facendoci percepire una distanza e uno scarto che in realtà non possiede, privandoci definitivamente della sua dirompente umanità, rintracciabile solo nelle grandi occhiate e nella voce roca, animalesca, di Al Pacino.
Un gigantesco Al Pacino, che ad ogni sguardo torvo, ad ogni passo incerto, è un lampo, un lamento che squarcia la linearità e la piattezza del film, minacciando e sconvolgendo ad ogni battuta, la sua sterile griglia narrativa e regalandoci i pochi autentici bagliori di passione e verità de Il mercante.
Una performance lirica e possente, la sua, ma che da sola non riesce a sostenere il peso e la responsabilità di un film che rischia perfino di appannare i suoi virtuosismi da antologia (da brividi il monologo tratto dal III atto) incastonati in un recitazione superlativa, a tratti smozzicata impietosamente dal montaggio (Lucia Zucchetti) spesso frettoloso e scoordinato (si veda il drammatico arrivo di Shylock sotto la pioggia dopo la fuga della figlia, tagliato bruscamente), troppo impegnato a "far quadrare" la sceneggiatura in un sterile collage, che a dare risalto ai momenti più intensi del film, impietosamente offuscato anche da una fotografia (Benoit Delhomme) indecisa, incoerente, pseudo-caravaggesca (ma del famoso 'chiaroscuro' di Caravaggio rimane solo lo scuro) che, partendo da un azzeramento cromatico, oscilla incerta tra flebili luci giallastre e fumose, e alcune brutte "cadute" verdastre. Un manto quasi incolore e anonimo quanto l’approccio generale al film, che culmina nel grigiore finale dell’immaginaria Belmonte in cui il passaggio dalla notte al giorno, dal buio alla “rivelazione” avviene in un monocorde e inespressivo appannamento visivo, in cui tutto si annulla, svanisce offuscandosi, compreso l’incanto di un mondo che nell’opera shakespeariana appare sospeso tra sogno e realtà, facendo cadere anche il vigore drammatico e comico che caratterizza il “rovesciamento” finale ad opera di Porzia, dea ex machina della vicenda.
Così come svaniscono le interpretazioni degli altri protagonisti, che tentano invano di imprimere un segno personale a recitazioni sincere ma troppo impostate come quella di Jeremy Irons, il raffinato e magnanimo mercante di Venezia, fin troppo dolente nella condizione di “vittima” del carnefice Shylock e del magniloquente Al Pacino che, ad ogni sequenza, tortura e prevarica (a livello drammaturgico e non solo) la sua interpretazione. Così come quella della dolce Lynn Collins, che pur offrendo il meglio di sé in abiti maschili, fatica a sostenere i forzati sorrisini cui la costringono le arti maliarde del personaggio di Porzia.
Da dimenticare invece, la petulante, lamentosa, come sempre ostentata e compiaciuta, performance di Joseph Fiennes, incapace di uscire dal suo debordante, ormai insostenibile cliché shakespeariano che ci propina da Shakespeare in Love e a cui neppure la simpatia arguta, pienamente british, di Kris Marshall (Love Actually) cui spetta il ruolo di Graziano, “buffone di corte”, e sguardo ironico sulla storia, riesce a porre rimedio.
Figure incolore, per una città incolore, Venezia, una protagonista ancora una volta controfigura di se stessa, avvolta nel solito convenzionale grigio nebbioso del suo pedante e retorico, fascino austero, che non si trova il coraggio di scalfire, per timore di perderne l’essenza, col risultato di inanellare l’ennesima scontata galleria di cartoline (Rialto, Palazzo Ducale, Erberia…) , di un’ormai logora e sfruttatissima iconografia cinematografica.
Di questo film resta una lezio senza stile, talmente impersonale da risultare a tratti irritante, una sensazione che deriva dalla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un film con tutte le carte in regola per essere memorabile, “potenzialmente” grande, ma realisticamente inutile.
Un autentico e doloroso spreco di energie e di talenti che ci risulta difficile e ingiusto ignorare, neppure adottando proverbiali, ma sempre poco convenienti, orecchie da mercante.

Sito ufficiale italiano: http://www.luce.it/istitutoluce/film/mercante
Sito internazionale: http://www.themerchantofvenicemovie.com / http://www.sonyclassics.com/merchantofvenice / http://www.mgm.com/uk/merchantofvenice


Ottavia Da Re

Il mercante di Venezia

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