The Company
Probabilmente non è un caso che Robert Altman sia arrivato ad occuparsi del mondo del balletto.
Lo ha fatto con The Company, che ha permesso al grande regista di esplorare l'universo della
danza, basandosi sulla storia non romanzata (in senso classico) di alcuni artisti del Joffrey
Ballett di Chicago.
Altman si è sempre presentato come un narratore profondamente - e scrupolosamente - interessato
alle dinamiche di interazione fra individui, spettatore esterno il cui sguardo ha spesso avuto la
presa dell'analisi microsociologica.
Partendo, senza andare troppo indietro nel tempo, da quello che molti hanno considerato il suo
capolavoro, America oggi (Short Cuts, 1993): nove storie incrociate a Los Angeles, basate
sui racconti di Raymond Carver. Occhiate pungenti sui rapporti fra singoli, con la macchina da
presa che, indiscreta, entrava nelle esistenze imperfette di mariti, mogli, amanti, amici.
Una tendenza che è proseguita, depurandosi della componente più spigolosa e vestendo (in
parte?) il tono della commedia, con La fortuna di Cookie (Cookie's Fortune, 1999), in cui
il numero dei personaggi diminuiva, ma la lente d'ingrandimento sulle relazioni fra attori sociali
tornava a metterne lentamente a fuoco le regole complesse - cui si aggiungeva l'elemento appena
accennato della distinzione in classi, nello sprezzante distacco con cui l'isterica Camille di
Glenn Close trattava la nipote pescivendola o il bighellone di colore.
Fra i due film, una continuità segnata anche dalla presenza in entrambi della musa di Altman,
la superba Julianne Moore, nel primo piena di grinta, nel secondo sotto tono ad arte. Forse è
casuale, ma si chiama proprio Julianne anche una delle ballerine cui in The Company viene
affidata una variazione.
Infine, Gosford Park (2001), magnifico affresco in cui lo sguardo macro contaminava
quello micro nel dipingere gli scontri fra gli umori e le rigide regole con cui strati sociali
distinti (servi e padroni) potevano comunicare. Sullo sfondo, la tenuta inglese di Gosford Park,
in cui un gruppo di eccellenti invitati si trovava alle prese con un omicidio negli anni Trenta.
The Company può esser letto in questo senso come meta ideale per un regista che ha da sempre
rappresentato l'interazione sociale, e che può finalmente esprimersi nella libera metafora
dell'interazione fisica presente nella danza.
Anche in The Company Altman può esaminare le dinamiche di gruppo, ma riesce a restringere il
campo, guardando alla cerchia degli artisti della 'compagnia' (così chiamata dal direttore Mr A.,
interpretato da Malcom McDowell) del Joffrey Ballet.
Nato da un'idea della stessa Neve Campbell - che ricopre il ruolo della ballerina Ry - e di
Barbara Turner, che s'è anche occupata di scriverne la sceneggiatura, il film rinuncia a far
emergere il lato personale delle vicende dei protagonisti (la delusione d'amore di Ry,
soprattutto, e la sua nuova storia con Josh, nel film James Franco) in favore di un'attenzione di
stampo documentaristico sull'universo del balletto. Con uno sguardo sempre distante, ma
palesemente carico di simpatia, Robert Altman usa tutti gli elementi come un pittore usa i colpi
di pennello. Non c'è sarcasmo nella presentazione delle silenziose rivalità che serpeggiano
all'interno della compagnia. Non c'è ironia crudele nel mettere in scena quello che molti
vedranno come uno stereotipo vecchio quanto il mondo, quello della ballerina che ha superato la
boa dei quarant'anni, trema all'idea di esser tagliata fuori e non accetta modifiche alle
coreografie che la fanno sentire più sicura.
Soggettive sui piedi dei danzatori, particolari delle loro gambe, inquadrature zenitali sul
palcoscenico si combinano come in un mosaico; del resto, Altman ha sempre privilegiato sguardi
compositi a semplici assoli cinefili. Una regia, la sua, che non perde efficacia nemmeno nel
sopperire alla sterilità di alcuni passaggi della sceneggiatura. Il rigore del grande maestro
si riflette nei nastri usati dagli artisti nel balletto iniziale, persino nello scandire le fasi
della storia fra Ry e Josh attraverso l'uso di tre diversi arrangiamenti della celebre canzone
My Funny Valentine (già cantata più volte sullo schermo cinematografico, si pensi alla
memorabile versione di Michelle Pfeiffer ne I favolosi Baker o a Matt Damon ne Il talento di
Mr Ripley). Le variazioni eseguite dal violoncello rimandano a una disciplina ferrea che
coinvolge la vita e non solo il lavoro; l'esecuzione di un passo a due che prosegue all'aperto
nonostante si scateni il temporale ne è un chiaro segnale. In alcune coreografie, poi, le ombre
fanno addirittura tornare alla mente la silhouette del premio Oscar, che ad Altman è stato sempre
negato a dispetto delle cinque nomination.
E, com'era facile aspettarsi, i titoli di coda iniziano a scorrere mentre la compagnia riceve
l'applauso alla fine di uno spettacolo: ancora una volta, il film e la danza confondono i loro
piani, legandosi. Alessandro Bizzotto
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