Actors

Che differenza passa fra l'incipit del Riccardo III di Shakespeare e una misera battuta per lo spot pubblicitario di una marca di salsicce? E' una domanda che l'apertura di Actors pone senza l'ombra di una polemica, partendo subito con ironia leggera ma agrodolce.
Il regista Conor McPherson guarda all'universo della recitazione mettendone alla prova i professionisti. In questo caso l'ormai maturo O'Malley (Michael Caine) e il giovane Tom (Dylan Moran). Vanaglorioso il primo, insicuro il secondo, stanno portando in scena ogni sera il Riccardo III; tronfia e invadente, la recitazione di O'Malley nel ruolo del protagonista prevarica sull'incerta presenza di Tom. Ma il vero palcoscenico è la vita. Venuto a conoscenza del debito illegale di un piccolo boss (Michael Gambon) nei confronti del pezzo grosso della malavita Magnani (Miranda Richardson), O'Malley convincerà Tom ad assumere una serie di travestimenti per ingannare l'incauto debitore prima e i mandanti di Magnani poi, e riscuotere così la cifra. Aiutati dall'acuta intelligenza della giovanissima Mary, (Abigail Iversen, al suo debutto sul grande schermo), la nipote di Tom, i due attori si immergeranno in una delicata e bizzarra serie di raggiri. E, con l'occasione, Tom farà più di una scoperta: l'amore - per la bellissima figlia del truffato, Dolores (Lena Headey) - e un nascosto talento d'interprete.
Filtrando il punto di vista della storia attraverso gli occhi della nipotina di Tom, Conor McPherson conferisce alla storia il tocco divertito dello scherzo comico; Actors è infatti il racconto che la ragazzina fa della vicenda durante un tema in classe, diviso in paragrafetti che spezzettano il film in più capitoli. Lungaggini e pesantezze sono così bandite da una pellicola che conserva un'irriverente freschezza (nemmeno il veterano Michael Caine è risparmiato dalle pungenti stoccate ironiche, comparendo addirittura in una sequenza vestito da donna) per una versione intellettuale della gangster story.
Ovviamente è il divertimento a farla da padrone, ma sempre sotto le spoglie di un'intelligenza raffinata che toglie al film l'alone più dark dell'umorismo british (l'ottica della giovane Mary è sempre presente) e regala all'imprevisto il peso del taglio leggero più dotto.
Tanta pretesa sottigliezza, che sempre antepone l'intelligenza al meccanismo della commedia, può dare la parvenza di giocare contro la consistenza di una storia più esile nell'apparenza che non nella realtà. L'effetto straniante dei simpatici rovesciamenti, nella parte conclusiva, rischiano di sembrare il paravento dietro cui si nasconde una vacuità presuntuosamente camuffata.
Ma la mano della mai prepotente regia fa talvolta tornare in mente - fatte le proporzioni debite - ora Mamet ora Altman, sia nel gusto per il rapido scambio di battute affilate sia nel concerto interpretativo diretto in modo fluido; e la risata che nasce anche nelle situazioni più eccentriche (Tom fugge, ingessato e su una sedia a rotelle, dai sicari di Magnani nei giardini dell'ospedale) è sempre genuina e sincera. Tutta da gustare la scena finale in cui un borioso e impettito O'Malley vince, durante una cena di gala, un riconoscimento teatrale come miglior attore per Riccardo III, ripetendo con aria seriosa "Miglior attore..." fingendo di meditare sul significato del termine. Ma, di nuovo, alla finzione sul palco si sovrappone la vita; e, in questo caso, ad avere successo è stato Tom, che danza con Dolores durante il gala, mentre O'Malley è guardato come un matto dai presenti perché continua a riproporre la sua idea di mettere in scena una versione dell'Amleto bandendo le consonanti e articolando solo i suoni delle vocali.
Actors resta comunque un film d'attori, sorretto da un cast di ottimi interpreti. A cominciare dai protagonisti Michael Caine e Dylan Moran, ora in lucidi duetti ora in sequenze collettive, che mettono in campo consumato mestiere da una parte e spontaneità degna d'Actors' Studio dall'altra. In un cast in cui brillano tutti i comprimari si distingue la prova di una bravissima Miranda Richardson, perfetta negli ambigui panni del boss fatale, spietata donna d'affari costretta a intervenire di persona per recuperare la semplice somma di denaro di un banalissimo debito. Assai brava anche la luminosa Lena Headey, dimostrazione di come fascino e bellezza non siano necessariamente sinonimo di fluente chioma platinata e misure extra, in una prova d'attrice tutta naturalezza. Sarebbe criminale non menzionare Abigail Iversen, che riesce ad arginare lo stereotipo della saccente bambina piccolo genio, e Michael Gambon, qui imbranato dopo una serie di ruoli sgradevoli (Gosford Park) o granitici (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Path to War per la televisione, in cui impersonava il presidente Lyndon Baines Johnson).


Alessandro Bizzotto

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