Paths of Ballet - Volume 2

Proseguono le interviste del nostro Speciale, Ballando sotto la pioggia, con altri quattro artisti del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala di Milano che hanno accettato di incontrarci. Nuove conversazioni esclusive con i danzatori scaligeri, che ci hanno parlato di amicizie, di difficoltà, e di come la realtà della danza in Italia influenzi la loro professione e la loro vita.
Per questo Volume 2, apertura degna della precedente con il solista Riccardo Massimi; a seguire, gli interventi del ballerino Andrea Piermattei e del solista Antonino Sutera; e chiusura riservata alla prima ballerina Gilda Gelati.


RICCARDO MASSIMI, BALLERINO SOLISTA
"LE EMOZIONI DEVONO ESSERE INTERIORI"


Riservato ma loquace, mostro di bravura nei panni dell'Oscurantismo (il Regresso in Excelsior), toccante Romeo, esuberante torero, fino ad arrivare ad Albrecht e Don José. La personalità di Riccardo Massimi è vulcanica e cordiale, al talento d'artista unisce spirito di cristallina pienezza e sottile lucidità. L'interprete definito "perfetto e convincente" ci ha svelato luci e ombre della sua arte in quest'intervista, aprendosi con onestà e accorto spirito d'analisi.

Nella realtà teatrale il contatto con il pubblico può condizionare l'artista? E' importante che ci sia un'interazione, implicita o esplicita, con lo spettatore?
Sì. L'applauso, per fare un esempio, conta molto. Per noi è particolarmente brutta la situazione in cui, alla fine di uno spettacolo in cui abbiamo dato moltissimo sia in scena che durante le prove - che sono la parte più difficile -, non ci sentiamo appagati dal pubblico. Si è comunque appagati dallo spettacolo stesso, ma non è una bella sensazione quella che trasmette un pubblico che non applaude, magari semplicemente perché vuole andarsene. È capitato di vedere gente che, a rappresentazione conclusa, aveva già quasi i cappotti addosso, soprattutto qui al Teatro degli Arcimboldi [attuale sede del Teatro alla Scala, ndr], che non essendo in centro magari costringe gli spettatori a correre per prendere l'autobus. Per quel che riguarda lo spettacolo di per sé, in realtà non c'è vera interazione. O meglio: si cerca di non farla esistere. Deve sempre esserci un velo fra noi e il pubblico, in modo da poter preservare le nostre emozioni. Per me all'inizio è stato parecchio difficile. Sono una persona molto emotiva, e anche piuttosto protagonista: sono egocentrico, amo stare al centro dell'attenzione. Nei primi anni in cui ballavo faticavo a trovare questo distacco dal pubblico. Lo consideravo quasi la mia famiglia, come quando da bambino allestivo spettacoli per i miei genitori, che costringevo a guardarmi. Per questo all'inizio interagivo troppo con il pubblico. Solo con l'esperienza mi sono accorto che non è un bene per l'artista di palcoscenico, perché è sempre necessario calibrare le emozioni. Le emozioni devono essere interiori. E per me, che sono una persona estroversa, tutto questo è molto difficile.

Alla danza vi trovate a unire la recitazione. Hai metodi particolari per la preparazione di un personaggio?
Anche a questo sono arrivato con l'esperienza, e continuo a imparare. C'è stata un'insegnante cubana, Loipa Araujo, davvero eccezionale, con la quale ho avuto l'esperienza di lavorare il ruolo del torero nella Carmen di Roland Petit, una figura molto caricaturale. Lei mi suggeriva di parlare ad alta voce durante l'esecuzione dei gesti, perché acquisissero senso. Questo all'inizio può essere imbarazzante; la danza è un'arte muta… ma questo aspetto è proprio quello che a volte ci blocca. È necessario essere il più naturali possibile. E per essere naturali la cosa migliore è parlare sulla musica, in una sorta di dialogo con chi ci sta attorno. Mi sono trovato poi a lavorare con Sylvie Guillem in Giselle; lei ha richiesto grande cura per la recitazione, su questo è incredibile, un grandissimo esempio. Al di là della tecnica, assolutamente di rigore, lei tiene molto anche a questo aspetto. Aspetto che ogni tanto, davvero, perdiamo di vista: ci sbrighiamo a dire le cose con la mimica senza aspettare l'interazione con l'altro, laddove c'è un duello, o un gesto d'amore.

Hai spaziato fra i ruoli più diversi, dall'Oscurantismo in Excelsior a un protagonista romantico come Romeo. C'è un personaggio che ha rappresentato per te una grossa sfida, un ruolo particolarmente difficile, come attore e come ballerino?
Ci sono personaggi che ti senti cuciti addosso, anche se forse rimane un'impressione tua, non condivisa dallo spettatore. E ci sono figure che ti mettono più in difficoltà. A me è capitato di considerare determinati ruoli adatti a me, per poi trovarmi in difficoltà nell'interpretarli. Romeo, ad esempio, per me è stato molto difficile; anche dal punto di vista tecnico, essendo io più portato per la danza contemporanea (penso a Giselle di Mats Ek o a Forsythe), ma sotto questo aspetto una determinata mole di lavoro costante permette di ottenere i risultati voluti; la difficoltà maggiore l'ho invece incontrata nel ruolo stesso. Soprattutto la seconda volta che l'ho interpretato mi sono accorto di non essere riuscito a staccarmi dalla mia vita personale. Avevo già maturato un'esperienza, attraverso situazioni private, che mi portava ad essere troppo drammatico. Mentre Romeo non può essere troppo drammatico: la sua storia è drammatica, ma lui è un ragazzo giovane che vive il suo sentimento con la spensieratezza del primo amore. Io mi rendevo conto, riguardandomi dopo le prove, di averlo interpretato con la maturità di un uomo che ha già avuto delusioni d'amore, che vive già con la consapevolezza che quello non potrà essere l'amore della sua vita.

Hai conosciuto anche la realtà internazionale, hai ballato a New York... Hai notato differenze fra il mondo della danza italiana e quello della danza straniera?
Ad essere fondamentale è la cultura in generale. Il pubblico dà tanto, e all'estero c'è un pubblico che ama davvero il balletto. In Italia questo è molto difficile; alcuni abbonati fanno fatica a venire a vedere una recita di danza, altri vengono a vederla solo perché è una prima. Gli appassionati non sono molti, e credo che soffrano quanto noi davanti a tutto questo.

Certo. Ad esempio, sei rappresentazioni serali per Il lago dei cigni [al Teatro degli Arcimboldi da mercoledì 14 aprile] non sono molte…
Per noi il problema strutturale c'è sempre stato, senza dubbio. Il Teatro alla Scala è stato sempre di prim'ordine per l'opera, questo va accettato. Ma è anche vero che il balletto ha dato tanto al Teatro, e per questo andrebbe valorizzato. In certe occasioni, per fortuna, questo riconoscimento c'è stato, ma in materia c'è molta incostanza. Di conseguenza, il pubblico segue quanto gli viene proposto. Un po' come con la televisione, che abitua il pubblico a vedere quanto propone. Tornando a parlare della realtà straniera… beh, ballare a New York per la serata dedicata ad Alvin Ailey è stata per me una fortuna eccezionale; era un sogno nel cassetto dai tempi della scuola. Alvin Ailey è stato uno dei miei grandi miti, ed è stato bellissimo trovarmi a ballare lì. Il Corpo di Ballo newyorkese è stato fantastico; io e altre personalità europee siamo stati chiamati come interpreti principali, e questo è stato un onore grandissimo. Anche sul piano umano il rapporto è stato bello. Abbiamo fatto solo una prova di scena, ma siamo riusciti a inserirci rapidamente fino a sembrare parte della compagnia. Questo, da noi, può non succedere anche dopo anni. Appartengo a questa compagnia da dodici anni, eppure mi è successo di sentirmi estraneo ad essa. Non so perché a volte questo succeda… Può darsi che all'estero sia uguale; io posso aver avuto una visione diversa in qualità di ospite. Ribadisco comunque che all'estero è molto diverso anche il pubblico; l'ho notato quando sono stato spettatore. Ci sono teatri in cui balletti con coreografie di Balanchine o di Forsythe vanno in scena tutte le sere, e riscuotono grande consenso. Mentre noi abbiamo sempre fatto fatica a far piacere al pubblico italiano Forsythe e Balanchine.

Ospitate spesso grandi nomi, come Sylvie Guillem o Anthony Dowell, che hanno preso parte a L'histoire de Manon andato in scena lo scorso febbraio. La presenza di ospiti importanti porta entusiasmo o rischia di inibire?
A me danno moltissima carica. Non posso dire che mi inibiscano. Con umiltà ci si mette nella posizione di chi guarda e cerca di prendere quanto può. Con la maturità e l'esperienza personali è comunque possibile "giudicare"… c'è sempre qualcosa che, anche in un grande artista, può non piacere. Ma alla fine il lavoro costruttivo è prendere da un grande quanto di positivo può dare. Occorre andare oltre l'impatto iniziale; per questo non c'è inibizione. Ad influenzare può intervenire anche il carattere di una persona. Ma io tendo a buttarmi, sono molto determinato, cerco di non lasciare che la paura mi trattenga, provo sempre. È più facile che l'inibizione arrivi in un secondo momento…!

C'è invece maggiore emozione o senso di responsabilità quando un coreografo crea qualcosa per te? Ricordo che Bigonzetti ha creato per te e Marta Romagna un passo a due da inserire nell'Omaggio a Nino Rota…
Certo. Ma il bello è la sensazione di maggiore libertà: sai che quel coreografo sta costruendo su di te. Comunque c'è disponibilità ad assecondare le tue doti e le tue inclinazioni; sai che il lavoro ti starà bene, che sarà cucito su di te. Di nuovo, sai a priori che molto difficilmente sarai inadeguato. Nel caso di questa esperienza con Mauro Bigonzetti, che avevo già conosciuto e che si era già fatto un'idea di me, ero abbastanza tranquillo: sapevo che non avrei incontrato difficoltà particolari. E ovviamente è stato un onore grandissimo!

Parlando con un soprano che ha cantato per molti anni al Teatro Colón di Buenos Aires, le chiedevo dell'emozione che provava poco prima di entrare in scena. Ma lei mi raccontava che, al contrario, fra artisti si divertivano parecchio, scherzavano… Per la tua esperienza, situazioni del genere si verificano anche nella vostra compagnia?
Dipende… È molto difficile che si giochi prima! C'è una tensione pazzesca! Non dovrebbe esserci: sarebbe meglio entrare in scena con la maggiore tranquillità possibile. Ma in realtà l'emozione è sempre grande. C'è la paura di sbagliare, si temono i giudizi del pubblico, del direttore, dei maestri… di te stesso soprattutto. Tendo a mettermi parecchio in discussione. Vorrei dare il massimo, non accetto di non riuscire a ottenere certe cose… Tutti i maestri e i direttori che abbiamo avuto alla Scala, compresi quelli attuali, hanno sempre cercato di farmi lavorare nel maggiore relax possibile e di non farmi preoccupare troppo: sanno che sono una persona che sta troppo a pensare, che dà spazio a tutto ciò che è emozione. Penso troppo a come e perché devo fare le cose, e questo crea tensione eccessiva. Possono però esserci situazioni in cui, se devo interpretare un pezzo che ho già ballato parecchie volte e sono piuttosto tranquillo, prima di entrare in scena faccio una battuta, uno scherzo. Amo molto scherzare, e se c'è da preparare una burla, anche in scena, sono fra i primi a organizzarla… Anche in scena può succedere che si parli fra noi, se il pubblico non vede. Ma questo avviene solo in presenza di ruoli che ho già interpretato, dopo molte recite.

Parlando di amicizie, immagino ce ne siano all'interno del Corpo di Ballo. Hai dei colleghi con cui preferisci lavorare, con cui c'è maggiore feeling? Hai ballato parecchio con Beatrice Carbone…
A livello di lavoro mi sono sempre trovato molto bene con Beatrice, s'è sempre creato un bel feeling. Abbiamo ballato in spettacoli per cui era necessario costruire un rapporto umano, non in balletti in cui serve semplice tecnica. Per la stessa Giselle di Mats Ek è necessario costruire qualcosa di più, ad esempio. C'è stato un periodo in cui mi sono trovato bene anche con Sabrina Brazzo. Non posso negare, comunque, di aver avuto l'esperienza più grande con Carla Fracci in Cheri. Credo che vada al di là della grandezza dell'artista: c'era qualcosa in più, un insieme di elementi che hanno alzato il livello emotivo. Mi ero immedesimato nella parte; quando andavo a casa mi sentivo ancora nel ruolo, quello di un ragazzo giovane innamorato di una donna più grande. E il giorno dopo l'ultimo spettacolo, quando mi sono trovato qui per la lezione, il sogno era finito. Ho percepito di colpo un vuoto interiore, la stessa sensazione che si prova quando la persona che ami parte e sai che non potrai vederla per un po'. È stato qualcosa di strano, imprevisto. In generale però trovo faticoso relazionarmi, soprattutto ultimamente… ho dovuto rivalutare parecchi rapporti nei quali ho creduto; ho pensato molto all'unione della compagnia… ma alla fine mi sono reso conto di aver costruito, immaginato tutto da solo, anche riguardo le amicizie. Fortunatamente qualche amico vero l'ho trovato in compagnia… e me lo tengo stretto! Soprattutto Massimo Murru. L'ho sempre stimato molto, fin da quando eravamo agli inizi. Ha saputo aiutarmi parecchio, e dal rispetto reciproco è nata anche l'amicizia. Ed Emanuela Montanari: oltre ad essere una grande amica, penso sia una bella e valida ballerina.


ANDREA PIERMATTEI, BALLERINO
"CERCANDO LA PERFEZIONE "


Più che un'intervista, quella con Andrea Piermattei finisce per essere una piacevole chiacchierata, un discorso condotto senza formalismi che porta in superficie aspetti diversi dell'universo del balletto, strutturali e non solo. Per un curioso ed efficace parallelo con la Formula 1…

È una domanda che ho rivolto spesso, quella relativa al rapporto con il pubblico… Può davvero condizionare la vostra interpretazione?
Assolutamente sì. Quando si va in scena la comunicazione con il pubblico c'è: se finisci di ballare e senti l'applauso, ti senti rinfrancato. È una conferma: quanto hai cercato di dare è stato percepito. Sarebbe comunque sempre necessario mantenere un livello professionale… ma il rapporto con il pubblico resta importantissimo. Riusciamo a percepire la presenza di una platea numerosa, così come ne percepiamo l'assenza quando il teatro è quasi vuoto. Allo stesso modo, capiamo se il pubblico è attivo, o se invece è annoiato.

Come attore hai metodi particolari per la preparazione di un personaggio, anche dal punto di vista emotivo?
Sì. È un lavoro molto personale, ma è anche necessario interagire con il maître: insieme si arriva a costruire il personaggio. Ad essere personale è soprattutto il tentativo di carpire, elaborare ed entrare nel personaggio, facendo sì che tutto il lavoro costituisca un giusto punto di equilibrio fra il personaggio e te stesso. Non bisogna escludere se stessi: la propria personalità non deve essere messa da parte, ma occorre lavorarci sopra per trovare il personaggio.

Quali sono le difficoltà più grandi che hai incontrato nel tuo percorso professionale?
Sicuramente la difficoltà maggiore è stato il lavoro sul mio corpo, dover fare i conti ogni giorno con il fisico e con la mente. Vivo la danza come auto-educazione: cerco di far sì che mi aiuti a diventare una persona migliore per cercare di ballare meglio. È questo il mio metodo. Di difficoltà, ad ogni modo, ce ne sono molte altre: è difficile stare in teatro, stare in una compagnia sempre a contatto con le stesse persone; è difficile andare in scena. È difficile trovarsi a contatto con duemila spettatori.

L'interazione nella danza è aiutata dalle simpatie personali?
Senza dubbio, anche se di nuovo dipende dalla situazione. C'è un fatto curioso: spesso risultano più importanti gli occhi dei colleghi attorno rispetto a quelli del pubblico. Il pubblico resta un'entità estranea, che viene percepita meno: non lo vedi, non ne vedi l'espressione… E ha sempre una competenza meno tecnica rispetto a quella che ha un collega. Per questo, se sbaglio qualcosa, il collega se ne accorge, lo sa, mentre il pubblico può non accorgersene. Avere attorno il Corpo di Ballo è una difficoltà che si fa sentire parecchio: non è facile dimenticare di avere attorno persone che sanno e possono dare su di te un giudizio positivo o negativo.

In The Company, Robert Altman mostra i membri del Joffrey Ballett di Chicago che si trovano a dover gestire incidenti dell'ultimo minuto… Basandoti sulla tua esperienza, puoi raccontarci qualche aneddoto?
Il film ricalca abbastanza fedelmente la vita della nostra compagnia, anche se con approssimazioni dovute alla necessità di strutturare un film e di dargli un taglio. Io comunque mi sono rivisto in diverse scene. Quando i ballerini si prendono in giro fra loro con diversi siparietti, mi sono ritrovato. Lo facciamo anche noi: ci ritroviamo, magari in tournée. Sono i momenti più belli: si scherza, si gioca, si ride insieme. Di aneddoti ce ne sono tantissimi, non vorrei dilungarmi troppo. In The Company viene mostrata una ballerina che si fa male in scena… questo succede, è successo anche a me! Durante una variazione sono caduto come un sasso: mi sono rotto un piede in scena. Non sapevo cosa fare… sono uscito zoppicando, e un mio collega è prontamente entrato per fare quanto avrei dovuto fare io. In questo, c'è spirito di gruppo. La cosa più importante resta lo spettacolo: "the show must go on". Ma potrei andare avanti e continuare con altri aneddoti…

Per fare un esempio, quando a febbraio ho visto L'histoire de Manon al Teatro degli Arcimboldi, sono uscito pensando: "Questo è stato uno spettacolo perfetto". L'impressione è spesso questa…
Beh, prova a pensare alla Formula 1. In materia si parla parecchio di perfezione. Ma poi si sente dire che con la sega a mano hanno tagliato un pezzo di carrozzeria per migliorare l'aerodinamica. E allora si pensa: dov'è tutta questa perfezione? Nel nostro caso la situazione è molto simile. La ricerca della perfezione è sempre presente. Ma poi è l'uomo che fa la differenza: ci si trova ad affrontare le situazioni più diverse. I problemi ci sono sempre e continuamente: le luci non sono mai pronte fino all'ultimo, non si sa se ci sarà il tempo per cambiarsi, non si sa mai bene da quale delle quinte occorre uscire… ma poi si esce e si balla. Per fortuna, queste cose al pubblico non arrivano: la macchina sembra perfetta. Ed è così che deve essere. Noi ci arrangiamo, facciamo del nostro meglio!


ANTONINO SUTERA, BALLERINO SOLISTA
"CERCO D'IMPARARE QUALCOSA DA TUTTI"


Antonino Sutera sa rispondere a una domanda con la pacatezza della routine per passare di colpo a un genuino entusiasmo. Fresco di nomina a ballerino solista, l'artista ci ha raccontato come ha vissuto il passaggio di ruolo e i suoi ultimi personaggi con meditata moderazione e disponibilità, soppesando le parole e rinunciando all'ironia facile.

Dopo una serie di ruoli significativi sei appena stato nominato ballerino solista. È un grande salto: puoi dirci come l'hai vissuto?
L'emozione è stata grande. Avevo già interpretato diversi ruoli da primo ballerino e da solista, ma la nomina ha sempre un suo peso. Sono stato nominato solista subito dopo l'interruzione seguita alle rappresentazioni de L'histoire de Manon, durante la quale sono stato in viaggio di nozze: a questo bel momento della mia vita privata si è aggiunto questo onore professionale. È il riconoscimento di un lavoro duro, ed è particolarmente gratificante.

Al momento d'entrare sul palco l'emozione lascia spazio al divertimento? Con qualche scherzo in scena, magari…
Spesso è il ruolo ad aiutare. Il personaggio di Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, ad esempio, mi consentiva di scherzare e giocare, a dispetto della tensione che derivava dalle difficoltà di esecuzione e interpretazione. Gli scherzi che facciamo per l'ultima rappresentazione sono poi un momento molto divertente, per noi ballerini. Aiutano anche a scaricare l'ansia.

Come mostra The Company, l'incidente dell'ultimo minuto è sempre possibile. Ti è mai capitata una situazione del genere? C'è un aneddoto che puoi raccontarci?
Succede, sicuramente. Anche senza pensare all'infortunio, può capitare che qualcuno perda qualcosa in scena. Quando ho interpretato Puck, ricordo che qualcuno ha perso un fiore in mezzo al palcoscenico; e io, nel ruolo di un folletto che poteva muoversi con maggiore libertà, sono entrato in scena per raccoglierlo. Sono momenti in cui si genera panico, perché le conseguenze non sono sempre prevedibili; si cerca di fare la prima cosa che viene in mente.

Ci sono stati momenti particolarmente duri in cui eri tentato di dire "Basta"?
No… sono sincero, davvero. La fatica c'è sempre; qualche episodio può far perdere entusiasmo, qualche frecciata dei colleghi… Ma per fortuna è sempre andato tutto bene. Mai avuti dubbi simili, per adesso.

Si sono formate per te, nella compagnia, amicizie particolari? Ci sono colleghi con cui ti trovi particolarmente bene anche sul piano umano?
Sì, assolutamente. L'amicizia può nascere. Io ho addirittura trovato l'amore in compagnia. Ma non sempre l'amicizia che nasce si mantiene tale nel tempo; purtroppo a volte entrano in gioco diversi fattori a incrinarla, a generare un'influenza sui rapporti. È successo anche questo.

Questa amicizia può aiutare nei passi a due?
Il buon feeling è importante: se manca, ballare insieme diventa difficile. Ovviamente non capita sempre di ballare con un amico o un'amica. Ma in scena è comunque bello avere il riferimento di una persona cara, soprattutto nei momenti di maggiore tensione, prima di una variazione… dà molta forza.

E parlando di grandi ospiti, ce n'è qualcuno la cui presenza ti ha caricato in modo particolare, da cui hai imparato o cui ti sei ispirato parecchio?
Cerco sempre di imparare qualcosa da tutti. È una grande fortuna per noi lavorare con grandi personalità. Sylvie Guillem è spesso nostra ospite; sono stato fortunato ad essere scelto da lei per interpretare uno dei due contadini nella sua Giselle. È stato bellissimo lavorare con Sylvie: è molto umana. Può sembrare una diva, ma si è creato un rapporto bellissimo fra lei e tutta la compagnia.

C'è stato qualche personaggio particolarmente ostico, anche per via di un investimento emozionale notevole nella sua preparazione?
Alcuni ruoli richiedono sempre maggiore concentrazione, in determinati passaggi, o durante una variazione. In uno degli ultimi spettacoli che abbiamo portato in scena, L'histoire de Manon, ho interpretato il capo dei mendicanti: la variazione che il personaggio ha nel primo atto è sicuramente brillante, ma richiedeva anche molta disciplina e molta tecnica. Era molto veloce, serviva grande rigore; e la scena, nonostante le grandi dimensioni del Teatro degli Arcimboldi, era molto piccola, per una questione di scenografie. Per questo all'inizio ho dovuto lavorare parecchio su una serie di piccoli aspetti. Ogni ruolo ha la sua difficoltà tecnica. Ad ogni modo, il personaggio più divertente da interpretare è stato Puck: era pesante in alcuni momenti, certo… i salti toglievano il fiato; ma a livello tecnico la difficoltà non era enorme, e ho potuto divertirmi. Già il tipo di ruolo lo permetteva. Anche ne Il lago dei cigni [in scena dal 14 aprile, ndr ] ho un ruolo divertente, quello del buffone; ma dal punto di vista tecnico è molto impegnativo. Serve lavorare sulla tecnica perché questa ti permetta di esprimerti.

Hai qualche balletto che ami in modo particolare?
Romeo e Giulietta è quello che mi viene in mente per primo; interpretarvi Mercuzio è stato bellissimo. Il direttore mi ha dato la possibilità di vestirne i panni, nonostante la mia giovane età; mi ha offerto molte chance di ballare, e questo per me è stato importantissimo. Sono legato anche affettivamente al ruolo di Mercuzio: l'ho interpretato quando ho ballato al Bolscioj di Mosca; un'emozione grandissima. E poi il personaggio mi piace perché è molto simile a me, a come sono davvero; mi ci sono sempre rispecchiato.


GILDA GELATI, PRIMA BALLERINA
"SIAMO NOI I GIUDICI PIÙ SEVERI DI NOI STESSI"


Se Aleksandr Puškin l'avesse conosciuta, avrebbe modellato la figura di Tatiana su Gilda Gelati. Capelli scuri e occhi profondi, la prima ballerina della Scala sembra appena uscita dal romanzo Eugenio Onegin. Sorridente e mai accigliata, ci ha rilasciato questa intervista senza ritrosia nel parlare di sé e delle difficoltà che ha saputo superare, grazie alla passione, alla tenacia e alla fiducia di una grandissima artista.

Quali sono state le esperienze più significative del tuo percorso artistico, quelle che ricordi più volentieri?
Senza dubbio la più importante è stata interpretare il mio primo ruolo da protagonista: Giulietta in Romeo e Giulietta di John Cranko. Ha cambiato il mio modo di lavorare. Fino a quel momento avevo interpretato ruoli da solista, ma mai un ruolo principale. È completamente differente. Un ruolo come quello di Giulietta, poi, non richiede di lavorare solo sulla tecnica, ma anche sull'interpretazione. Con il maestro che mi ha preparato, Robert Streiner, è nata anche un'amicizia. L'atmosfera che si è creata durante tutto il lavoro delle prove è stata molto particolare.

E c'è stato qualche momento particolarmente duro in cui eri tentata di dire "Basta"?
Come no! Noi ballerini siamo molto soggetti al gusto delle persone che ci dirigono. Il colore dei tuoi capelli, il tuo naso, il tuo modo di muoverti possono far sì che tu non piaccia alla persona che ti dirige. E questa persona decide della tua vita, dei tuoi ruoli, della tua carriera. La nostra angoscia più grande deriva dal tempo limitato: sono pochi gli anni in cui lavoriamo e possiamo dare il massimo. È sufficiente non piacere a un direttore per perdere due anni, che nella tua ottica equivalgono a dieci anni! C'è stato un momento in cui ero tentata di smettere, di lasciare perdere tutto; ero entrata in crisi anche sul piano personale, ed è stato un momento davvero difficile. Con il tempo comunque se ne esce. La passione che mi accomuna ai miei colleghi è enorme: ciò che vogliamo è solo poter ballare, andare in palcoscenico e soprattutto lavorare bene.

La danza può arrivare ad essere una sfida con se stessi, con le proprie capacità, con le potenzialità del fisico?
Sono molto d'accordo, certo. Quando balliamo siamo noi i giudici più severi di noi stessi. Puoi avere davanti una persona che ti apprezza, che ti incoraggia; ma se sei convinto che le cose siano andate male, non c'è niente da fare… Mi è capitato di lavorare a un ruolo che non sentivo, in cui non mi trovavo a mio agio; molti mi dicevano il contrario, mi trovavano adatta alla parte; ma io no. In questo modo ci si auto-condiziona in modo pazzesco. Diventa tutto più difficile…

Fra le tue esperienze all'estero c'è stata quella all'Opéra di Parigi, dove hai ballato nel ruolo della Luce in Excelsior. La realtà straniera presenta grosse differenze rispetto a quella italiana?
Da quando lavoriamo al Teatro degli Arcimboldi, trovo che il balletto sia molto più seguito. Registriamo il tutto esaurito molto spesso. Sia con Il pipistrello e L'histoire de Manon quest'anno, sia l'anno scorso con Sogno di una notte di mezza estate. Quel che ho notato a Parigi, però, era un autentico amore per i ballerini, assente invece nella realtà italiana. Il negozio dell'Opéra di Parigi, ad esempio, ha a disposizione una serie di fotografie delle ballerine di casa… Lì - altro elemento - si dà importanza a tutte le rappresentazioni, non solo alla prima come a volte succede qui. E tutti i ballerini sono amati allo stesso modo. Mi ha colpito moltissimo una cosa: all'Opéra i ballerini sono molto più numerosi di noi, ma la sensazione è che ci sia spazio per tutti. Nel nostro Corpo di Ballo ci sono meno elementi, ma a volte sembra che non ci sia spazio per tutti, per quanto alla fine la possibilità di ballare ci sia sempre.

Bigonzetti ha creato per te le danze su Les Martyrs di Donizetti, nel 2001 Sylvie Guillem ti ha scelta per la sua Giselle. Soddisfazioni e traguardi simili devono essere un grande incentivo, uno sprone ad andare avanti…
Certo! Sylvie Guillem mi ha scelta per la sua Giselle subito dopo il momento nero di cui ti ho parlato. È stato molto più di un aiuto…! Sono legatissima a Sylvie, al di là della stima che nutro per lei; mi ha aiutato ad uscire da un periodo veramente brutto con la sua fiducia.

I rapporti all'interno della compagnia sanno mantenersi buoni nel tempo?
Non è facile. Soprattutto in Italia, ci si trova a lavorare insieme a colleghi che hanno seguito il tuo stesso percorso formativo; io lavoro con persone che conosco da quando ho quindici anni. All'estero questo non succede, di solito si cambia compagnia con facilità maggiore. Il nostro ambiente diventa più pesante per questo. Le simpatie e le antipatie possono durare anni e anni. Da un lato, questo può essere positivo: le amicizie hanno il tempo per crescere, per essere coltivate. Ma se ci sono problemi con una persona… rischi di trascinarti dietro quei problemi per tutto il tempo della tua carriera.

The Company mostra i ballerini del Joffrey Ballet di Chicago che si riuniscono in occasione delle feste, scherzano, trascorrono del tempo insieme anche fuori dalla sala prove. Succede anche nel vostro caso?
Nella nostra compagnia ho trovato più di un'amica e di un amico; usciamo insieme anche fuori dal lavoro, ma sempre a piccoli gruppi. Quando lavoravo in Germania, a Dresda, era invece molto più facile che l'intera compagnia si riunisse: quasi nessuno era del posto, e per questo ci si faceva molta più compagnia, si trascorrevano i periodi di festa insieme. Alcune compagnie straniere, poi, sono più piccole della nostra; lo stesso Joffrey Ballet non è così grande. Le dimensioni ridotte possono aiutare a far crescere l'unità fra artisti in un Corpo di Ballo…

Ci sono stati casi in cui ti sei trovata a interagire con un partner, in un passo a due, che non ti dava la sicurezza necessaria? Hai trovato qualche difficoltà particolare in materia?
Le difficoltà più grandi si trovano durante le prove: lì quanto non funziona viene in superficie. Il nervosismo, le paure, gli scontri fra caratteri… Il palcoscenico è il punto d'arrivo. Dopo tante prove, la fiducia cresce sempre; i passi sono stati provati spessissimo, la maggior parte del lavoro è stata fatta, senti che in tutti c'è la volontà di dare il meglio. Tutto questo aiuta a superare le difficoltà.

Sei già prima ballerina. C'è ancora qualche sogno che vorresti vedere realizzato?
La vita della prima ballerina è sicuramente più facile. Le responsabilità sono maggiori, si lavora parecchio… ma le gratificazioni sono numerose. Puoi interpretare i ruoli che ti piacciono, non sei costretta a interpretarne altri cui non ti senti adatta. Il mio sogno nel cassetto rimane comunque interpretare Tatiana nel balletto Onegin. Credo sia il mio preferito, e spero davvero di riuscire presto a dar vita a questa figura femminile così ricca.


Alessandro Bizzotto



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