La recensione

Lontano dal paradiso - Far from Heaven

Creare oggi un melodramma degli anni '50, interpretarlo e presentarlo così, nel mezzo dell'epoca attuale, in cui c'è la mania di pompare adrenalina, può lasciare perplessi. Eppure i più forti melodrammi sono quelli senza apparenti cattivi, nei quali i personaggi finiscono col farsi involontariamente male a vicenda, solo per soddisfare i propri desideri. Imporre all'apparente innocenza degli anni '50 temi come il razzismo e la sessualità, entrambi delicati, significa rivelare quanto ancor oggi questi temi siano delicati - e quanto l'attuale clima di compiacente stabilità sia simile a quello dell'epoca passata.

Todd Haynes



Dal regista di Velvet Goldmine una storia straziante, romantica e struggente ambientata nell'America degli anni '50, il paese della Coca Cola e delle Pin-up, dei conflitti razziali e delle violenze morali, quando il perbenismo borghese imperava in una società intollerante. Cathy (Julianne Moore), premurosa madre e moglie premurosa di Frank (Dennis Quaid) si occupa della propria famiglia in modo impeccabile, diventando presto l'ideale di donna da inserire nelle riviste patinate come simbolo di perfezione. Ma il suo matrimonio, apparentemente felice, comincia a incrinarsi, quando scopre l'omosessualità del marito. Cathy, pur essendo disperata si dimostra comprensiva e disposta ad aiutare Frank, accettando con abnegazione e sacrificio la sua indifferenza. La solitudine e la disperazione la portano a confidarsi con il proprio giardiniere Raymond (Dennis Haysbert), un uomo di colore che le dimostra grande comprensione e amicizia, sentimenti che scatenano l'ira del marito e di tutta la società perbenista e intollerante.
L'incanto della famiglia perfetta ad ogni costo si spezza a contatto con la cruda realtà, il cinismo e l'insensibilità di una società solo apparentemente lontana. Todd Haynes nel suo personale e sontuoso omaggio al cinema di Douglas Sirk, affonda il coltello nella storia americana ma riesce nell'intento più difficile di rendere attuali le sue piaghe. Con grande eleganza e raffinatezza, mantiene nel silenzio di un bisbiglio, ferite e sofferenze laceranti che si concentrano nella protagonista Julianne Moore, bravissima a trattenere e insieme amplificare colpe e delitti di un mondo esteriormente perfetto, ma brulicante di orrore.
L'America delle contraddizioni trova in questo film la sua consacrazione, sublimata esteticamente dai contrasti creati fra un fotografia ovattata e bellissima, opera di Edward Lachamn (Premio Speciale per il contributo artistico alla 59. Mostra del Cinema di Venezia), e la sceneggiatura tagliente e acuta di Haynes.
Avvolgente e caratteristica la splendida musica di Elmer Bernstein soprattutto nelle languide note di pianoforte che marcano ancor di più i "silenzi" dolorosi del film. Julianne Moore non è mai stata così affascinante, grazie a capacità interpretative che la portano ad emulare lo stile di recitazione artificioso ma estremamente elegante dei film anni '50, arrivando a incarnare una bellezza che ricorda fascinose dive quali Lana Turner, Maureen O'Hara e Veronica Lake in un incanto senza tempo.

Ottavia


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