
| (18-07-2008) - JOHN LANDIS E VALERIA GOLINO TRA I GIURATI DELLA 65. MOSTRA Juriy Arabov, Valeria Golino, Douglas Gordon,
John Landis, Lucrecia Martel, Johnnie To nella Giuria Internazionale Venezia 65 presieduta da Wim Wenders.
Definiti i giurati che affiancheranno il presidente Wim Wenders nella Giuria Internazionale del Concorso della 65. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (27 agosto – 6 settembre 2008), diretta da Marco Müller e organizzata dalla Biennale di Venezia, presieduta da Paolo Baratta. Si tratta dello sceneggiatore russo Juriy Arabov, protagonista del cinema russo contemporaneo; dell’attrice italiana Valeria Golino, già Coppa Volpi a Venezia a soli vent’anni, e interprete italiana tra le più amate all’estero; dell’ “artista visivo” britannico Douglas Gordon, celebrato a livello internazionale e premiato dalle maggiori istituzioni artistiche del mondo; del cineasta statunitense di culto John Landis, sperimentatore sagace di tutti i generi cinematografici attraverso il suo graffiante sguardo satirico; della giovane regista Lucrecia Martel, la più significativa voce femminile
del Nuovo Cinema Argentino; del regista hongkonghese, Johnnie To, protagonista del miglior
cinema orientale contemporaneo e tra i principali protagonisti della storia recente della Mostra.
Nella serata conclusiva della Mostra, il 6 settembre prossimo, la Giuria Internazionale Venezia 65
assegnerà ai lungometraggi in concorso i seguenti premi: il Leone d’Oro per il miglior film, il Leone
d’Argento per la migliore regia, il Premio Speciale della Giuria, la Coppa Volpi per la migliore
interpretazione maschile, la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, il Premio
Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente, l’Osella per il miglior contributo
tecnico, l’Osella per la migliore sceneggiatura.
Negli ultimi anni le giurie del concorso hanno premiato con il Leone d’Oro: "Il segreto di Vera Drake"
(Vera Drake) di Mike Leigh (2004), "I segreti di Brokeback Mountain" (Brokeback Mountain) di Ang Lee
(2005), "Still Life" (Sanxia haoren) di Jia Zhang‐ke (2006) e "Lussuria ‐ Seduzione e tradimento" (Se, Jie) di
Ang Lee (2007).
Note biografiche:
Juriy Arabov (Mosca, Russia, 1954) autore di soggetti e sceneggiature per il cinema e per la
televisione, si laurea come sceneggiatore al VGIK (Istituto statale pansovietico del cinema) nel 1980.
Poeta e filosofo, decide di dedicarsi alla drammaturgia cinematografica, continuando a scrivere
poesie e romanzi già nei primi anni Settanta. Più tardi, agli inizi di anni Ottanta promuove a Mosca
la creazione del Club della poesia, un’associazione semi‐clandestina che riuniva i poeti e
intellettuali, tra cui molti protagonisti di cultura alternativa al regime. Autore di numerose raccolte
di poesia: “Prostaya zižn” (Una vita semplice), “Nenastoyaščaya saga” (Una saga non vera) si
posiziona come poeta ʺmeta‐metaforicoʺ e pubblica anche vari libri di prosa, tra cui romanzi “Bigbeat”,
“Yunye gody Danta” (La giovinezza di Dant) e il libro storico‐filosofico “Mechanika sudeb”
(La meccanica degli destini). Ha vinto il Premio Mednyj Vsadnik, Premio Apollon Grigoriev, Premio
Boris Pasternak per la letteratura. Dal 2002 è titolare della cattedra di drammaturgia cinematografica
al VGIK, ritiene molto importante la sua attività di docente nell’ateneo dove nel 1976 ha conosciuto
Aleksandr Sokurov. Hanno debuttato insieme nel cinema con La voce solitaria di un uomo (Odinokij
golos čeloveka, 1978), che rimane un film proibito fino al 1987 e che è la prima di una serie di
fortunate collaborazioni con Aleksandr Sokurov. Dagli anni Ottanta, infatti, è sceneggiatore di film a
soggetto del regista russo: L’insensibilità dolorosa (Skorbnoye besčuvstviye, 1987), I giorni dell’eclisse (Dni
zatmeniya, 1988), Spasi i sokhrani (Salvaci e proteggici, 1989), Krug vtoroy (Cerchio secondo, 1990), Kamen
(Pietra, 1992), Madre e figlio (Mat i syn, 1997), Moloch (Molokh, 1999), Taurus (Teletz, 2001), Il Sole
(Solntse, 2005).
Oltre al lungo e fruttuoso sodalizio con Sokurov, Arabov scrive molte sceneggiature dedicate
“all’etá d’argento” della cultura russa, tra cui il primo thriller mistico del cinema russo, Signor
scenografo (Gospodin oformitel, 1988) di Oleg Teptsov. Arabov ha scritto sceneggiature importanti
anche per molti dei protagonisti del cinema russo contemporaneo: Čudo (Miracolo) (in lavorazione
nel 2008) di Aleksandr Proshkin, Yuryev den (Diva, 2008) di Kirill Serebrennikov, Uzhas, kotoryy
vsegda s toboy (Il terrore che ti accompagna sempre, 2007) di Arkadiy Yakhnis, Apocrypha: Music for Peter
and Paul (Apokrif: Muzyka dlya Petra i Pavla, 2005) di Adel Al‐Khadad, Prisutstviye (Presenza, 1992) di
Andrei Dobrovolsky, Sfinks (1990) di Andrei Dobrovolsky, Posvyashchyonnyy (1989) di Oleg Teptsov.
A queste vanno aggiunte le mini‐serie televisive Zaveščaniye Lenina (2007) di Nikolai Dostal, Delo o
myortvykh dušakh (2005) di Pavel Lungin, Doktor Živago (2006) di Aleksandr Proshkin che portano la
sua firma. “Usare il talento di Yurij al cinema è come mettere i chiodi al muro con un vaso di
cristallo al posto del martello, le sue sceneggiature sono le opere autosifficienti, sono le raffinate
opere d’arte” (Alexandr Sokurov).
Valeria Golino (Napoli, Italia, 1966), attrice prediletta da alcuni dei più importanti registi italiani
degli ultimi vent’anni, interprete europea tra le più richieste negli Stati Uniti, con la sua lunga
galleria di personaggi si è confermata tra le attrici più versatili del cinema italiano. Nasce in un
ambiente eclettico e cosmopolita, che influenza da subito il suo percorso artistico. Trascorre
l’adolescenza tra Napoli e Atene (il padre è italiano e la madre è una giovane pittrice greca) e inizia
a lavorare come modella in Grecia. A 16 anni si trasferisce a Roma, dove conosce la regista Lina
Wertmüller che la nota e la scrittura per il film Scherzo del destino in agguato dietro lʹangolo come un
brigante di strada (1983) per il ruolo della figlia di Ugo Tognazzi. A 19 anni ottiene già la prima parte
da protagonista in Piccoli Fuochi (1985) di Peter Del Monte. L’anno seguente, appena ventenne, è
consacrata dalla Mostra dove le viene assegnata la Coppa Volpi come migliore attrice per il film
Storia dʹamore di Citto Maselli, premio che la fa conoscere all’estero. Prende parte a diverse
produzioni internazionali Ultima estate a Tangeri di Alexander Arcadys (1987), Paura e Amore di
Margarethe Von Trotta (1987), Gli occhiali d’oro di Giuliano Montaldo (1987), prima di trasferirsi a
ventidue anni in America dove prende parte a La mia vita picchiatella (1988) di Randal Kleiser. Quasi
contemporaneamente viene scelta come partner di Tom Cruise e Dustin Hoffman per il film Rain
man ‐ lʹuomo della pioggia (Rain Man, 1988) di Barry Levinson. Nel 1990 torna in Italia per girare un
altro film di Peter Del Monte, Tracce di vita amorosa, in concorso alla 47. Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica, mentre due anni dopo gira in Messico Puerto Escondido di Gabriele Salvatores. Sul
set di Come due coccodrilli (1995) di Giacomo Campiotti recita accanto a Fabrizio Bentivoglio, mentre
torna a Venezia l’anno successivo con Escoriandoli di Antonio Rezza e Flavia Mastrella. La sua
formazione cosmopolita continua ad essere apprezzata all’estero, dove ha occasione di lavorare con
Jerzy Skolimowski in Acque di primavera (Torrents of Spring, 1989), con Sean Penn in Lupo solitario (The
Indian Runner, 1991), con Jim Abrahams in Hot Shots! (1991) e Hot Shots! 2 (1993), con Gary Oldman
in Amata immortale (Immortal Beloved, 1993), con Mike Figgis e Nicolas Cage in Via da Las Vegas
(Leaving Las Vegas, 1995), con John Carpenter in Fuga da Los Angeles (Escape from L.A., 1996), con
Quentin Tarantino in Four Rooms (1996). Nel frattempo si cimenta anche come produttrice (La strage
del gallo, 1994, di Andrea Pantzis, mai distribuito in Italia). Nel 1997 Silvio Soldini la sceglie come
protagonista per il film Le acrobate (Grolla d’Oro come migliore attrice protagonista). Nel 1998 è di
nuovo alla Mostra di Venezia con due film: L’albero delle pere di Francesca Archibugi, in concorso, e
Side Street di Tony Gerber nella sezione Prospettive. L’anno successivo torna a Venezia con un
doppio ruolo, sia come interprete del cortometraggio d’esordio di Fabrizio Bentivoglio Típota,
presentato tra i Programmi speciali della 56. Mostra, che come madrina, in occasione della cerimonia
di premiazione durante la quale consegna il Gran Premio della giuria al regista iraniano Abbas
Kiarostami, per Il Vento ci porterà via (Le vent nous emportera, 1999). Sempre nel 1999 Valeria torna a
lavorare con Peter Del Monte in Controvento e viene scelta da Ferzan Ozpetek per Harem Suare. Il
cinema americano continua tuttavia ad attirarla e nel 2000 viene scelta dal figlio d’arte Rodrigo
Garcia per impreziosire il cast stellare di Le cose che so di lei (Things You Can Tell Just By Looking At
Her, 2000). Negli ultimi anni i progetti a cui ha preso parte si sono fatti via via più numerosi: il
biopic Frida di Julie Taymor (2002); l’intenso Respiro di Emanuele Crialese (2002), che le permette di
vincere il secondo Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista dopo quello vinto nel 1987
per Storia d’amore; il noir francese 36 Quai des Orfèvres di Olivier Marchal (2004); La guerra di Mario di
Antonio Capuano (2005) con la quale vince il David di Donatello come migliore attrice protagonista;
Texas di Fausto Paravidino (2005), presentato nella sezione Orizzonti alla 62. Mostra di Venezia; A
casa nostra di Francesca Comencini (2006); Il Sole Nero di Krzysztof Zanussi (2007); La ragazza del lago
di Andrea Molaioli (2007); Lascia perdere, Johnny di Fabrizio Bentivoglio (2007); Caos Calmo di Nanni
Moretti (2008).
Douglas Gordon (Glasgow, Scozia, 1966), riconosciuto come uno dei più importanti “visual artists”
della sua generazione, lavora sin dagli esordi su due forme espressive: la comunicazione verbale e le
immagini in movimento. Premiato a soli trent’anni con il prestigioso Turner Prize (1996), durante la
sua carriera ha realizzato video‐installazioni, film, fotografie, oggetti e testi indagando attraverso
diversi linguaggi le problematiche legate alla ricerca dell’identità, alla tensione fra bene e male,
dimostrando sempre un grande interesse per l’indagine profonda della condizione umana. Gordon
è conosciuto dal pubblico per le sue installazioni video, in cui studia i processi percettivi dello
spettatore utilizzando immagini riconoscibili per esplorare questioni legate alla memoria e
all’identità individuale e alla loro evoluzione nel tempo. A questo scopo utilizza spesso anche
sequenze di classici hollywoodiani, come La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) o Taxi Driver
(1976). Un esempio della sua capacità di rielaborazione del cinema è la celebre 24 Hours Psycho
(1993), una delle sue opere più famose a livello internazionale. Presentata nel 1993 al Tramway
Theatre di Glasgow, 24 Hours Psycho è basata su Psycho di Alfred Hitchcock (1960) proiettato senza il
sonoro e a due fotogrammi al secondo (invece dei 24 usuali), rallentando il film tanto da farlo durare
24 ore.
Dopo essersi formato alla Glasgow School of Art tra il 1984 e il 1988, Gordon completa gli studi alla
Slade School of Art di Londra. Fra fine anni Ottanta e primi Novanta, nella scena artistica di
Glasgow i lavori del giovane artista scozzese sono molto seguiti: già nel 1986 la sua prima personale
attira l’attenzione della critica e lo porta ad esporre le sue opere in importanti musei, tra i quali il
Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven nei Paesi Bassi, il Musée dʹArt Moderne de la Ville de
Paris, il Centro Cultural de Belém in Portogallo e il DIA Center for the Arts a New York. Altre
istituzioni di prestigio che negli anni seguenti ospitano le sue mostre sono la Tate di Liverpool
(2000), il Museum of Contemporary Art di Los Angeles (2001), la The Hayward Gallery di Londra
(2002) e il Van Abbemuseum di Eindhoven (2003). Nel 1997 partecipa allo SkulpturProjekte a
Münster con un’installazione all’interno di un sottopassaggio pedonale trasformato in una sorta di
cinema in cui si proiettano in loop, sui due lati di uno schermo, due celebri film che rappresentano
l’ossessione religiosa e quella satanica: Bernadette (The Song of Bernadette, 1943) di Henry King e
LʹEsorcista (The Exorcist, 1973) di William Friedkin. Nel 2001 arriva negli Stati Uniti con la sua prima
retrospettiva americana organizzata al Geffen Contemporary di Los Angeles e in seguito esposta
anche alla canadese Vancouver Art Gallery, al Museo Rufino Tamayo a Mexico City e all’Hirshhorn
Museum and Sculpture Garden di Washington. Nel 2005, cura ʹThe Vanity of Allegoryʹ, una mostra
al Guggenheim di Berlino. Negli ultimi anni le opere di Gordon sono state ospitate da molte altre
istituzioni artistiche prestigiose, come la Fundació Joan Miró di Barcellona, il Museum of Modern
Art di New York, la National Gallery di Edimburgo, il Mart di Trento. Oltre al Turner Prize, Gordon
ha ricevuto numerosi premi internazionali tra cui il “Premio Duemila” per il miglior artista giovane
alla Biennale Arti Visive di Venezia del 1997 e il premio Hugo Boss al Guggenheim Museum di
SoHo. Tra le sue mostre più recenti ci sono ʹTimelineʹ (2006) al MoMA di New York,
ʹSuperhumanaturalʹ (2007) alla National Gallery of Scotland e ʹBetween Darkness and Lightʹ (2007)
al Kunstmuseum Wolfsburg di Wolfsburg. Il vero esordio di Gordon nel mondo del cinema, però, è
avvenuto nel 2005 con il film Zidane, un ritratto del XXI secolo (Zidane, un portrait du 21e siècle), diretto
a quattro mani con Philippe Parréno e presentato fuori concorso a Cannes nel 2006. Un film a metà
strada fra il documentario e la video‐arte.
Lucrecia Martel (Salta, Argentina, 1966), è considerata oggi la più importante voce femminile del
Nuovo Cinema Argentino, non solo per la padronanza della macchina da presa, ma anche per la
capacità di far percepire, quasi fisicamente, tutto ciò che accade dietro i gesti quotidiani dei
protagonisti delle sue storie. I suoi film, infatti, attraverso un’attenta costruzione dell’inquadratura e
un raffinato uso del rapporto fra sonoro e immagini, fanno emergere costantemente inquietudini e
quesiti morali.
Durante l’adolescenza si diletta spesso a filmare momenti privati della sua famiglia, senza
immaginare minimamente il proprio futuro in campo cinematografico che in soli tre lungometraggi
le ha già fatto ottenere una decina di premi in svariati festival internazionali. A vent’anni si
trasferisce da Salta a Buenos Aires dove studia Scienze della Comunicazione e Animazione alla
Avellaneda Experimental (AVEX) e alla National Experimentation Filmmaking School (ENERC).
Nel 1988 gira il suo primo lavoro, El 54 e cinque anni più tardi realizza il successivo Piso 24, due
cortometraggi d’animazione di grande originalità. Abbandonata l’animazione, nel 1991 è la volta di
un nuovo corto, Besos rojos, e nel 1995 di Rey muerto, con cui quell’anno vince il Premio Coral
all’Havana Film Festival per il miglior cortometraggio. Dal 1995 al 1998 firma la regia di numerosi
documentari e speciali televisivi, oltre a dirigere un programma per bambini caratterizzato da una
forte carica di humour nero, che ottiene grande successo e diversi riconoscimenti dalla stampa
argentina.
Il debutto nel lungometraggio di finzione avviene nel 2001 con La Ciénaga, film corale che unisce
Cechov e Proust creando un’opera claustrofobica capace di svelare il degrado della classe media
argentina, il peso della memoria e l’incombenza di una natura matrigna. Accolto come uno degli
esordi più sorprendenti degli ultimi anni, La Ciénaga vince svariati premi in numerosi festival
internazionali, tra cui Berlino, Sundance, Havana e Toulouse. Nel 2004, sotto l’ala del nume tutelare
Pedro Almodóvar, nel ruolo di produttore, partecipa in concorso al Festival di Cannes con La niña
santa, opera che si interroga sui rapporti tra sessualità e religione, tra senso di colpa e desiderio, tra
carne e spirito. Il film si avvicina, per intelligenza e gusto della messa in scena, al cinema di Buñuel e
dello stesso Almodóvar, ma dimostra al tempo stesso come la regista abbia saputo sviluppare nel
suo percorso artistico uno stile del tutto personale. Del resto, Lucrecia Martel esprime uno degli
sguardi più originali del panorama cinematografico contemporaneo. Attraverso una precisione
quasi maniacale nella composizione dell’inquadratura, un uso accurato delle luci e delle scelte
cromatiche, una costante evocazione del fuori campo, un raffinato utilizzo dei giochi di sguardi e di
contrappunti nei gesti, Lucrecia Martel riesce a restituire amosfere torbide e decandenti come i
rapporti in cui si dibattono i suoi personaggi.
Nel 2008 Martel produce e dirige il suo terzo e più recente lavoro, La mujer sin cabeza, che la porta
nuovamente a Cannes con un ritratto di donne, ulteriore tassello della sua ricca galleria di
straordinari personaggi femminili. La regista è tornata ad analizzare anche in questo film la media
borghesia argentina con le sue colpe rimosse, le tensioni irrisolte e gli orrori che riaffiorano
dall’oblio, chiudendo così una trilogia iniziata proprio con La Ciénaga e proseguita con La niña santa,
storie di cui ‐ non a caso ‐ è anche autrice. Lucrecia Martel, con il suo cinema materico, fatto di corpi,
di umori, di spiritualità mai slegata dalla carne, getta luce su una corruzione che è intellettuale
prima che fisica, di pensiero prima che di azione.
John Landis (Chicago, Illinois, 1950), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, cresciuto
a Los Angeles inizia a lavorare nel cinema facendo il fattorino alla 20th Century Fox. Ritiratosi da
scuola, il diciottenne Landis nel 1969 si trasferisce nella ex‐Yugoslavia per lavorare come assistente
di produzione nella commedia della MGM Kelly’s Heroes (Brian G. Hutton, 1970). In Europa, Landis
lavora come attore, dialog coach e stuntman in molti spaghetti western girati in quegli anni in
Spagna. A ventun’anni debutta come scrittore e regista della commedia Slok (Schlock, 1971), un
affezionato tributo ai film horror di serie B finanziata in proprio che incassa 6 milioni di dollari.
Travestito e truccato da scimmia, con una tenuta disegnata dall’allora ventenne Rick Baker, Landis
interpreta lo “Schlockthropus” ovvero “l’anello mancante” tra uomo e animale. Nel 1977, i fratelli
Zucker e Jim Abrahams lo chiamano per girare un film comico ispirato al loro Kentucky Fried
Theatre. Ridere per ridere (The Kentucky Fried Movie) è il fortunato preludio alla successiva commedia
di enorme successo, l’amatissimo Animal House (National Lampoonʹs Animal House, 1978), commedia
studentesca commissionata dalla Universal che lancia nell’Olimpo dei miti hollywoodiani il genio
comico di John Belushi, di cui Landis riesce a valorizzare la comicità anarcoide e demenziale. Due
anni dopo realizza quello che diventerà un vero e proprio cult movie per diverse generazioni, The
Blues Brothers (1980), scritto insieme a Dan Aykroyd, protagonista del film accanto a Belushi. Il film
fa di Landis uno dei più noti giovani registi hollywoodiani e l’autore di un nuovo tipo di comicità
catastrofica e demenziale. A suo agio con ogni genere cinematografico, nel 1981 Landis scrive e
dirige il classico horror Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London),
contaminazione tra horror e commedia, che ancor oggi continua a godere di un successo
internazionale fra molte generazioni di fan. Due anni più tardi dirige la sophisticated comedy Una
poltrona per due (Trading Places), oltre a un episodio dell’omaggio alla serie TV di fantascienza degli
anni ‘50, Ai confini della realtà (Twilight Zone). Nel 1985 arriva alla Mostra presentando nella sezione
Videomusica due lavori: il cortometraggio B.B. King Documentary (diretto a quattro mani con Jeffrey
A. Okun) e l’innovativo Making Michael Jackson Thriller, girato nel 1983 con Jerry Cramer sul set del
video cult Thriller, presentato proprio a Venezia l’anno precedente nella sezione Videomusica e
Cinema, e chiaramente influenzato dall’esperienza di Un lupo mannaro americano a Londra. Grazie a
sceneggiatura, trama e metodi produttivi hollywoodiani, Thriller cambia per sempre l’estetica di
MTV e reinventa il concetto di video musicale guadagnandosi numerosi riconoscimenti, tra cui vari
MTV Awards (Best Overall Video e Viewe’s Choice) e il Video Vanguard Award – The Greatest Video in
the History of the World, diventando un vero fenomeno a livello mondiale. Landis collabora di nuovo
con Michael Jackson in Black or White (1991), primo film o video musicale ad usare CGI “digital
morphing”, proiettato in contemporanea mondiale in 27 nazioni davanti a circa 500 milioni di
spettatori.
Continuando con l’opera di contaminazione fra generi e spesso collaborando con attori fidati come
Dan Aykroyd, Eddie Murphy e Chevy Chase, realizza la commedia gialla Tutto in una notte (Into the
Night, 1985), la parodia sul nucleare Spie come noi (Spies Like Us, 1985) e, con il gruppo di Saturday
Night Live, il western comico I tre Amigos (¡Three Amigos!, 1986). Con Donne amazzoni sulla luna
(Amazon Women on the Women, 1987) ritenta l’operazione di Ridere per ridere, per poi trovare un
nuovo successo di botteghino con Il principe cerca moglie (Coming to America, 1988), una fiaba comica
con Eddie Murphy. All’inizio degli anni ‘90, sfruttando gli archivi della Universal, Landis idea la
serie TV Dream On, che produce, di cui dirige parecchi episodi, e che durerà fino al 1994. La sua St.
Clare Entertainment ha inoltre prodotto show televisivi di grande successo come Weird Science,
Sliders, Honey, I Shrunk the Kids, Campus Cops e Sir Arthur Conan Doyle’s The Lost World. Tra i
successivi lavori per il grande schermo ci sono anche la farsa Oscar ‐ Un fidanzato per due figlie (Oscar,
1991), l’horror Amore allʹultimo morso (Innocent Blood, 1992), l’action movie Beverly Hills Cop III ‐ Un
piedipiatti a Beverly Hills (Beverly Hills Cop III, 1994) e il film per bambini The Stupids (1996). Del 1998
è il sequel di Blues Brothers, Blues Brothers ‐ Il mito continua (Blues Brothers, 2000), al quale fa seguito la
produzione indipendente di Delitto imperfetto (Susanʹs Plan, 1998), ultimo lavoro di fiction prima del
suo emozionante debutto nel documentario con Slasher (2004), un anticonvenzionale film verità che
segue le avventure di un veterano venditore di auto usate. Nel 2005 e nel 2006 torna a cimentarsi
con l’horror presentando con successo al Festival di Torino ‐ che nel 2004 gli dedica una
retrospettiva ‐ i mediometraggi La donna cervo (Deer Woman, 2005) e Family (2006), due episodi che
inaugurano la serie televisiva americana Masters of Horror creata dal regista Mick Garris, che
ribadiscono il genio del regista nel mescolare uno dei suoi generi preferiti con la carica satirica che
contraddistingue tutta la sua filmografia. Nel 2008 Landis ha diretto uno show per la serie NBC Fear
Itself, e tre episodi del programma di grande successo Psych.
Johnnie To (Hong Kong, 1955), con una carriera che vanta oltre quaranta film diretti e altrettanti
prodotti, è da oltre venticinque anni fra i principali registi del cinema orientale, capace di
attraversare con disinvoltura tutti i generi e dotato di un innato senso della narrazione. To nella sua
lunga e versatile carriera ha saputo creare opere ricche di sfaccettature, formalmente accuratissime e
in crescita costante sul piano stilistico ed espressivo, che lo hanno definitivamente consacrato come
uno dei più amati autori del cinema del Sol Levante. Girando con un ritmo sostenutissimo
un’incredibile quantità di storie, Johnnie To da un lato ha consolidato la propria posizione sul
mercato realizzando film di notevole successo popolare e dall’altro, attraverso la sua società di
produzione è stato in grado di svincolarsi dalle regole stesse del mercato, rompere barriere
consolidate e dar vita ad un cinema capace di ripensare se stesso sia dal punto di vista del
linguaggio cinematografico sia da quello delle logiche dell’industria cinematografica. Costanti della
sua poetica, che vede smantellare il miglior cinema di genere, sono la semplicità nella costruzione di
personaggi a tutto tondo, capaci di narrare e far procedere l’intreccio anche durante le azioni più
spettacolari, e l’uso di una fotografia che gioca sul chiaroscuro. To punta ad esprimere l’autenticità
della cultura hongkonghese al di là di ogni semplificazione, rileggendo in chiave ironica i riferimenti
a pietre miliari come Akira Kurosawa o ancora, sul versante occidentale, Sam Peckinpah e
attualizzandone i toni eroici tipici. Scoprire il suo mondo spettacolare significa entrare in un
universo parallelo all’insegna del colpo di scena, votato all’indagine multiforme del tema del
destino e popolato da poliziotti e criminali, pistole e cavalieri. Come la maggior parte dei registi
hongkonghesi della nuova generazione, anche To si avvia al mestiere di cineasta lavorando per la
televisione. Negli anni Settanta realizza, infatti, numerosi serial per la TVB sino alla svolta, con il
passaggio al grande schermo nel 1980, con l’action/mystery Bi shui han shan duo ming jin (The
Enigmatic Case). Il successo commerciale arriva alla fine anni Ottanta, grazie a commedie in cui
sfrutta il talento comico di Chow Yun‐Fat – Ba xing bao xi (The Eight Happiness, 1988), Ji xing gong
zhao (The Fun, the Luck, and the Tycoon, 1989) – a polar violenti e implacabili come Cheng shi te jing
(The Big Heat,1988) e a melodrammi in pura tradizione hongkonghese come You jian A Lang (All
About Ah‐Long, 1989). Pur continuando a girare commedie di successo, come Ti dao bao (Lucky
Enconunter, 1992) e Sam sei goon (Justice, My Foot!, 1992), all’inizio degli anni Novanta si specializza
in un altro genere, il film d’arti marziali a sfondo fantastico e realizza, collaborando con il
coreografo Chin Siu‐tung, i cult‐movies Dung fong saam hap (The Heroic Trio, 1993) e Xian dai hao xia
zhuan (The Heroic Trio 2: Executioners, 1993) in cui Michelle Yeoh, Anita Mui e Maggie Cheung
formano un indimenticabile trio di super‐women, antecedente di tutto rispetto delle sanguinarie
donne‐killer ritratte da Tarantino in anni più recenti. Un primo punto di svolta è segnato dal
poliziesco a basso budget Wu wei shen tan (Loving You) diretto nel 1995. Questa pellicola, in cui la
tensione e l’azione sono sapientemente combinate con le psicologie dei personaggi e le loro
dinamiche sentimentali, pone le basi di quella che di lì a poco diventerà la cifra stilistica di To.
Deciso a puntare fino in fondo sul nuovo modulo sperimentato con Wu wei shen tan (Loving You),
l’anno successivo fonda con il regista e sceneggiatore Wa Ka‐fai la Milkyway Image Productions,
ricoprendo d’ora in poi un ruolo fondamentale nel rinnovamento del cinema hongkonghese
attraverso la produzione e realizzazione di lavori estremamente liberi e creativi, caratterizzati da un
taglio narrativo spiccatamente noir, duro e spiazzante. La Milkyway produce in questi anni opere
nere e pessimiste (malgrado qualche accenno d’umorismo) che mettono spesso in scena con grande
intensità drammatica il mondo dei marginali e dei disadattati come Chan sam ying hung (A Hero Never
Dies, 1998), Joi gin a long (Where a Good Man Goes, 1999), An zhan (Running Out of Time, 1999), Cheung fo
(The Mission, 1999). Ma è proprio a partire da The Mission che To attua una sorta di sdoppiamento
creativo. Da un lato si inserisce a tutti gli effetti in un contesto mainstream e riesce infondere nuova
linfa al cinema di Hong Kong con una lunga serie di pellicole ‐ commedie romantiche, demenziali e
d’azione ‐ confezionate assai abilmente e interpretate da divi del calibro di Andy Lau, Sammi Cheng
e Gigi Leung, che riscuotono un vastissimo successo di pubblico, facendo esplodere il box office
hongkonghese: Goo laam gwa lui (Needing You, 2000), Lat sau wui cheun (Help!!!, 2000), Shôshen nanʹnu
(Love on a Diet, 2001), Lik goo lik goo san nin choi (Fat Choi Spirit, 2002), Heung joh chow Heung yau chow
(Turn Left, Turn Right, 2003). Dall’altro lato, proprio grazie a questi successi si guadagna quella
sicurezza economica che gli permette di realizzare in totale libertà progetti ben più audaci e
profondamente autoriali, che rivelano la sua personale poetica e il suo talento visivo. Chuen jik sat
sau (Fulltime Killer, 2001), PTU (2003), Daai si gin (Breaking News, 2004), Hak se wui (Election, 2005),
Hak se wui yi wo wai kwai (Election 2, 2006), Tie saam gok (Triangle, 2007) diretto insieme a Tsui Hark e
Ringo Lam, Man jeuk (Sparrow, 2008) sono solo alcuni suoi film presentati nei maggiori festival
internazionali negli ultimi anni, con cui l’estetica di Johnnie To ha conquistato grandi favori anche in
occidente. Del resto, proprio nel pieno di queste sperimentazioni che l’hanno portato sempre più nel
cuore del pubblico e della critica internazionali, To è sbarcato anche alla Mostra presentando nel
2004 fuori concorso Rudao longhu bang (Throw Down). Di due anni più tardi è la sua partecipazione
lidense in concorso, con Fangzhu (Exiled), mentre nel 2007 la platea veneziana l’ha applaudito
nell’ironico polizieso‐metafisico Shentan (Mad Detective), film sorpresa in concorso alla 64. Mostra,
diretto a quattro mani con il socio e collaboratore Wai Ka‐Fai.
Wim Wenders – Presidente di Giuria – (Düsseldorf, Germania,1945), punto di riferimento
imprescindibile tra i registi del Nuovo Cinema Tedesco, è un autore tra i più innovativi del cinema
contemporaneo per scelte tematiche e stilistiche. Il suo cinema, rifiutando lo schema narrativo
tradizionale, è tra i più influenti degli ultimi quarant’anni, attraversa generi differenti e crea opere
sempre complesse e ricche di prospettive. Wenders è stato capace ‐ insieme ad Alexander Kluge,
Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog, Margarethe von Trotta ‐ di mettere in luce le
contraddizioni e le tensioni della società tedesca, portandone in primo piano i problemi politici e le
questioni sociali ed esistenziali. Contemporaneamente, ha condotto una personale riflessione
filosofica sull’importanza del vedere e sull’etica delle immagini, nell’epoca del loro massimo
proliferare. Ponendo sempre al centro della propria indagine il rapporto fra musica e immagini,
Wenders ha legato tali riflessioni al tema del viaggio e del movimento in un continuo gioco di
rimandi fra realtà e finzione.
Produttore, sceneggiatore, attore, montatore, autore di svariati libri e fotografo, poco più che
ventenne, dopo essersi dedicato alla pittura e all’incisione, scopre la passione per il cinema alla
Cinèmathéque française. Studia alla Hochschule für Film und Fernsehen di Monaco, scrive come
critico e gira i primi cortometraggi (Schauplätze, Victor I, Silver City, Drei Amerikanische LP’s), in cui
sono già presenti motivi e forme della sua futura filmografia, come l’attenzione all’immagine e al
metacinema, l’amore per il rock e il tema del viaggio. Dopo aver realizzato nel 1970 Estate in città
(Summer in the City), suo film diploma alla scuola cinematografica di Monaco, nel 1972 presenta alla
33. Mostra di Venezia il suo primo lavoro da professionista, Prima del calcio di rigore (Die Angst des
Tormanns beim Elfmeter, 1971). Il film, tratto da un romanzo di Peter Handke, anticipa quelle che
saranno le coordinate della sua poetica, fatta di sguardi sulla quotidianità, di personaggi che
faticano a comunicare e di un cinema che tende a privilegiare l’evidenza visiva più che la
sottolineatura verbale. Nel ‘72 fonda con altri registi tedeschi la Filmverlag der Autoren, cooperativa
di produzione e distribuzione, punto di partenza del Nuovo Cinema Tedesco, con la quale produce
molte sue opere successive, come Alice nella città (Alice in den Städten, 1973), rilettura dei roadmovies
americani attraverso uno sguardo profondamente europeo debitore del Bildungsroman, e
Falso movimento (Falsche Bewegung, 1975), liberamente ispirato al Wilhelm Meister di Goethe. Nel ‘76 è
in concorso a Cannes con Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit), pellicola che conclude quella che è
stata definita la “trilogia della strada”, iniziata due anni prima con Alice nella città, attraverso cui
viene ulteriormente sviluppato il motivo del viaggio. Nel 1977 riprende la struttura del giallo, già
usata e rielaborata nelle opere degli esordi, realizzando L’amico americano (Der Amerikcanische Freund,
1977), grazie al quale Francis Ford Coppola lo invita negli Stati Uniti per girare Hammett – Indagine a
Chinatown (Hammett, 1982) per la sua Zoetrope Productions. Nel 1980 con Lampi sullʹacqua ‐ Nickʹs
movie (Lightning Over Water, 1980), presentato a Cannes e Venezia, racconta gli ultimi giorni di vita
del regista, amico e maestro Nicholas Ray, gravemente malato di cancro ai polmoni e al cervello.
Due anni più tardi, proprio alla Mostra, il cinema di Wenders sale definitamene alla ribalta con Lo
stato delle cose (Der Stand der Dinge, 1982), riflessione sul mestiere del cinema, consacrato dal Leone
d’Oro. Altri riconoscimenti importanti arrivano nel 1984, anno di Paris, Texas, con il quale riflette
nuovamente sul viaggio e sull’America vincendo la Palma d’Oro e molti altri premi internazionali.
A questo film segue – dopo un intermezzo con il documentario Tokyo‐Ga (1985) dedicato a Yasujiro
Ozu, regista che considera suo maestro – Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987), poetica
storia popolata da angeli desiderosi di riconquistare una natura più umana, fra i maggiori successi
di Wenders a livello di critica e pubblico, premiato per la miglior regia al Festival di Cannes. Il
successivo Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt, 1991) è la sua opera più impegnativa dal
punto di vista produttivo e viene stravolto dalle esigenze distributive (ma nel 2004 il regista ne
riedita la versione director’s cut di 5 ore). Seguono Così lontano, così vicino (In weiter Ferne, so nah!,
1993), Gran Premio della Giuria a Cannes; Arisha (Arisha, der Bär und der steinerne Ring, 1992)
presentato a Venezia nel 1994 nella sezione Finestra sulle Immagini; Lisbon Story (1994); e il film
realizzato con la collaborazione degli studenti della scuola cinematografica di Monaco, I fratelli
Skladanowsky (Die Gebrüder Skladanowsky, 1995), presentato a Venezia nel 1996. Dalla metà degli anni
Novanta Wenders gira i suoi film principalmente negli Stati Uniti. Inizia in questa fase la sua “L.A.
trilogy” composta da Crimini Invisibili (The End of Violence, 1997), The Million Dollar Hotel (2000), Orso
d’Argento al Festival di Berlino e Land of Plenty (2004), in concorso alla 61. Mostra dove vince il
premio UNESCO; ritratto amaro e disincantato della povertà e della paranoia negli Stati Uniti di
Gorge W. Bush dopo l’11 settembre, Land of Plenty si sviluppa sulle note di Leonard Cohen. È di fine
anni ’90 Buena Vista Social Club (1999), documentario premiato con innumerevoli riconoscimenti
internazionali e grande successo di pubblico che esplora con sguardo divertito il mondo della
musica cubana, avviando una fase di lavori legati alla musica. Il fortunato sodalizio con Sam
Shepard, autore del soggetto di Paris, Texas prosegue vent’anni dopo con Non bussare alla mia porta
(Don’t Come Knocking, 2005), di cui Shepard scrive soggetto e sceneggiatura, atto d’amore intriso di
nostalgia per un cinema e un’America che non ci sono più. L’ultimo lavoro del cineasta, Palermo
Shooting (2008), in concorso al 61° Festival di Cannes, segna il suo ritorno in Europa. Negli anni Wim
Wenders ha partecipato anche a molti progetti con altri registi: con Michelangelo Antonioni firma la
regia di Al di là delle nuvole (1995) premio FIPRESCI alla Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica, mentre nel 2002 scrive e dirige Twelve Miles to Trona, episodio di Ten Minutes Older
– The Trumpet, film collettivo composto da dieci corti di 10 minuti ciascuno, a cui partecipano Jim
Jarmush, Spike Lee, Chen Kaige, Werner Herzog, Aki Kaurismaki e Victor Erice. Lo stesso anno
Wenders lavora anche a Soul of a Man, documentario della serie “The Blues” a cui partecipano anche
Martin Scorsese (produttore esecutivo della serie) e Clint Eastwood. Nel 2006 il cineasta collabora ad
un progetto spagnolo di Medici senza Frontiere in Congo, realizzando il documentario Invisible
Crimes, presentato alla Berlinale l’anno seguente. |