Good Night, and Good Luck
La luce abbacinante proietta su uno schermo le immagini in bianco e nero di un servizio giornalistico su Edward R. Murrow, mentre una voce squillante, celebrativa, commenta cadenzata e potente la sua rigorosa ed esemplare carriera. I titoli scorrono sul rigore e la professionalità di un uomo capace di fronteggiare l’ostracismo politico con la forza della comunicazione e della libertà di parola.
Pochi anni prima, in una stanza buia quel fascio di luce tremula illumina un drappello di uomini coraggiosi stretti intorno ad una redazione per discutere il prossimo servizio...
Non è l’incipit di Quarto potere di Orson Welles, ma le immagini incisive, dense di suggestioni e significati, dello straordinario Good Night, and Good Luck di George Clooney. Ma è con la stessa immediatezza e con lo stesso rigore (senza contare le influenze nell’uso del B/N e la frequente citazione del nome del protagonista, Edward R. Murrow, memore di Charles F. Kane...) del grande capolavoro wellesiano del ’41 (più che attraverso l’irrequitudine delle pellicole di denuncia degli anni ’70 di Sidney Lumet e Alan Pakula) che il sempre più sorprendente George Clooney, regista ormai pienamente affrancato dall’influenza "soderberghiana", decide di rimettersi dietro la mdp (dopo l’intenso Confessioni di una mente pericolosa) a servizio di un gruppo straordinario di interpreti per portare in scena e illuminare quella porzione di storia, e di deprecabile censura che la politica degli Stati Uniti adottò nel corso degli anni ’50 nei confronti della libertà di pensiero che va sotto il nome di Maccartismo. Ma anche il ritratto di un uomo e di una categoria, quella del giornalismo, capace di scardinare la castrazione mentale e la vigliaccheria morale che governavano una società puritana e integerrima, tracciando la strada ad una televisione (quella della CBS e della sua redazione) per una volta, in grado di risvegliare le coscienze invece di assopirle, come accade oggi, ma soprattutto ad una giornalismo libero, capace di mettere in discussione se stesso, la propria storia e il proprio paese.
Un’invettiva che non ha bisogno dei toni spesso estremi e chiassosi, ma non altrettanto lucidi, di un Michael Moore per essere efficaci ma che con grandissima intelligenza affida la propria mise en scene all’intensità di un resoconto diretto, tagliente e sommesso allo stesso tempo, che va dritto come un fuso al cuore del problema, senza spavalderie, senza strafare, senza debordare mai, in una lucidissima documentazione visiva, aprendo gradualmente uno squarcio silenzioso nel buio di un brandello di storia che si anima all’improvviso abbagliante e cruda in tutta la sua desolante realtà.
Attraverso una regia limpida, scarna, diretta, giocata tutta sui primi piani e l’intensità dei protagonisti, attraverso un bianco e nero essenziale e ammaliante (merito del direttore della fotografia Robert Elswit), un lavoro scrupoloso e archeologico di selezione e assemblaggio di video originali dell’epoca perfettamente integrati nel montaggio ben calibrato di Stephen Mirrione (21 grammi, Oscar per Traffic).
E che al di là degli scontati riferimenti alle simili (per contenuti) battaglie giornalistiche messe in scena in passato (da “Tutti gli uomini del presidente” a “Quinto potere”...) che si possono riscontrare ad una prima lettura, sembra in realtà adottare lo sguardo analitico, frantumato e la pregnanza di film come The Insider di Michael Mann.
Per dar vita ad un affresco lapidario, asciutto, con al centro un protagonista assoluto, meritatamente premiato (non altrettanto il film, che qualcuno forse non ha avuto coraggio di celebrare, cedendo alla solita cieca sudditanza nei confronti di supposti “maestri” concedendo un’Osella di consolazione per la sceneggiatura di George Clooney e Grant Heslov) con la Coppa Volpi alla 62. Mostra, lo straordinario David Strathairn (L.A. Confidential, Il socio), che porta in scena l’esperienza teatrale, lavorando per sottrazione, contenendo ogni spasmo, ogni tormento in una recitazione mascellare, tutta tensione, sopracciglia e sguardi, fra volute di fumo e di pensieri, che a tratti ricorda un altro virtuosismo in B/N, quello di Billy Bob Thornton del coeniano L’uomo che non c’era, in un assolo sottile di un’intensità disarmante (memorabile il suo inesorabile e irreprensibile atto d’accusa nei confronti del senatore del Wisconsin, Joseph McCarthy).
A supportarlo, un autentico coro di interpretazioni volutamente sottotono, rarefatte, ma fascinose ed eleganti (Patricia Clarkson), sottili ed eloquenti (Robert Downey Jr, Jeff Daniels), silenziose ma dolenti (Ray Wise) guidate dallo stesso George Clooney, qui umile spalla di Strathairn, (come aveva fatto con Sam Rockwell in Confessioni di una mente pericolosa, facendo vincere al suo protagonista l’Orso d’Oro a Berlino), contrappunto autoironico al ritmo del film, capace di tendere e allentare al punto giusto, senza lasciare che si spezzi, il filo sempre teso di emozioni del film.
Good Night, and Good Luck diventa così un silenzioso inno alla libertà, al coraggio e al rigore, intelligente, delicato e trascinante come una sinfonia jazz, come la voce suadente Dianne Reeves, cerebrale ed istintiva come la sua musica, silenziosa e sottile come un sax che risuona nell’ammaliante penombra di una sala di registrazione.
Un film che è al contempo uno sguardo autocritico nei confronti di un passato “da ricordare”, e un monito al giornalismo moderno che ha ancora la possibilità e il dovere di affermare il coraggio della propria libertà.
Una voce roca in un silenzio di ipocrisia. Essenziale, indipendente e sola.
Come lo slogan che chiude e suggella un servizio di cronaca e la sua cosciente, disarmante, verità.
Good Night and Good Luck.
Ottavia Da Re
Un coraggioso film contro l’antidemocraticità: Good Night, And Good Luck.
George Clooney, innanzitutto regista ma anche attore e quindi promotore della
sua opera, è arrivato sulle strade del Lido di Venezia il primo di settembre.
Oltre alle ormai consuete, ovviamente per lui, manifestazioni di giubilo
femminili, l’ attesa per il suo film era notevole. Good Night, and Good Luck, produzione affidata alla Indipendent (Warner), regia e recitazione
di Clooney (Fred Friendly), con David Strathairn (il protagonista Edward
R. Murrow), Robert Downey Jr, Grant Helsov, Ray Wise, e da ricordare ,sotto
la manovalanza produttiva di Steven Soderbergh, viene premiato alla 62esima
mostra del cinema di Venezia con: coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile
a David Strathairn e premio per la miglior sceneggiatura a Clooney e Grant Helsov.
I complimenti a tutta la troupe non vanno fatti tanto per la vicenda realmente
accaduta ma per il coraggio della scelta degli argomenti trattaati, anche nell'ottica presente.
Nel 1953 si consuma negli studi della CBS, gli stessi di Welles, una querelle politica tra Edward Murrow e l’allora senatore del Wisconsin Joseph Mc Carthy (ruolo interpretato da ricche immagini di repertorio). Il fulcro della questione, era il caso Milo Radulvic, accusato d’esser un
pericolo per la nazione e una spia comunista al servizio dell’U.R.R.S.,
per non ben definite colpe. Il Maccartismo, periodo narcotizzato dall’informazione,
prevedeva “processi lampo” per tutti coloro i quali: erano sposati con partner
russo, ceco o slovacco, polacco (in breve d’origine di quel blocco), per
il semplice possesso di riviste e/o libri russi, oppure per la grave colpa
di un viaggio in paesi sotto l’influenza sovietica. A parte gli innumerevoli
casi a noi sconosciuti, la politica di Mc Carthy tra il 50-54, eletto
nel 52 alla presidenza del Senate Commitee on Goverment Operations nonché
attivo collaboratore della HUAC (commissione attività antiamericane), colpiva
Hollywood: l’amicizia o la frequentazione di “persone sospette” faceva si
che i sospetti cadessero come pioggia. Charlie Chaplin fuggiva in Europa,
Elia Kazan uscito dal carcere sfuggiva a infondate incriminazioni, infine
John Huston, Humprey Bogart (pedinato dall’FBI) e Katharine Hepburn espressero
il loro dissenso nei confronti di questa offensiva illiberale. Un sondaggio
del '54 dava l’appoggio del 50% a Joseph Mc Carthy contro un misero 29%
di oppositori. La paura di un attacco interno da parte dei comunisti rese
l’America degli anni '50 un posto un po’ meno libero di quello che sembrava.
Mi sembra giusto chiederci: la paura e le psicosi di sicurezza possono limitare
la libertà negli U.S.A.?
Filippo Armellin
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