I segreti di Brokeback Mountain

E’ possibile raccontare l’evolversi del più universale dei sentimenti umani attraverso gli stilemi di un genere così particolare come il western? Dare nuova vita ad un genere cinematografico ormai obliato mediante la destrutturazione d’ogni suo elemento caratteristico? Sondare e ritrarre i fondamenti di un’identità nazionale così lontana dalla propria e renderlo naturale e realistico come se vi si appartenesse da innumerevoli generazioni? Abbattere le classificazioni sessuali con cui si è soliti zavorrare la passione?
Il dottor Frankenstein in grado di rispondere affermativamente a tutti i sopraccitati quesiti esiste e si chiama Ang Lee, regista e uomo in agile equilibrio fra Oriente ed Occidente, che con Brokeback Mountain firma una delle sue opere migliori in cui la semplicità, l’eleganza e la carica emotiva della forma filmica si accompagnano ad una finezza e compattezza narrativa, un’introspezione psicologica e ad un’estasi fotografica della messa in scena senza paragoni.
Magistralmente e fedelmente tratto dalla short story del Premio Pulitzer Annie Proulx (suo anche “The Shipping News”), il film narra la vicenda di due giovani cowboys conosciutisi durante l’estate del 1963 sulle scoscese pendici di Brokeback Mountain, dove era stato loro assegnato il compito di badare ad uno sterminato gregge di pecore per conto di un rude mandriano del Wyoming. Superati i primi giorni di muta convivenza, Ennis e Jack si scoprono più simili di quanto essi stessi non siano disposti ad ammettere ed il profondo ed indissolubile legame che nascerà tra loro durante quei mesi di duro lavoro li unirà per tutta la vita con una struggente passione a cui non potranno mai più dare sfogo in tutta la sua pienezza.
Basta poco per cogliere nella breve sinossi la peculiarità di questo film, ovvero la commistione di ritmi e tratti caratteristici del melodramma e di ambienti, semantiche e simbologie tipiche del western, con l’innovazione dell’elemento gay. Si tratta di una fertile contaminazione di generi apparentemente dissonanti o si è di fronte ad un tentativo di creazione di un nuovo genere cinematografico? Ai posteri l’ardua sentenza, vero è che, sebbene considerato il genere “virile e maschio” per eccellenza, il western ha trattato, fin dai suoi albori, di cameratismo maschile che talvolta implicava anche delle sottili sfumature sessuali. L’elemento omosessuale prendeva la forma di una sotterranea o latente tensione erotica, come ad esempio quella che si genera tra Shane e John Starret ne “Il cavaliere della valle solitaria”, che culmina con la scena in cui i due uomini sradicano un enorme ceppo d’albero per poter coltivare il terreno circostante, lavorando insieme, seminudi, sudando e forzando la natura, mentre l’unica donna del film, Mary, moglie del contadino, li guarda da lontano, esclusa da un legame troppo forte quanto ambiguo, ineffabile.
Ambientato quasi un secolo dopo, Brokeback Mountain si spinge oltre, come raccogliendo un’eredità velata, narra della reificazione di pulsioni ataviche e lo fa con estrema naturalezza e grazia, rifuggendo il carattere sensazionalistico che le storie omosessuali spesso trascinano con sé, soprattutto in virtù del fatto che l’intento di Ang Lee era mostrare una storia d’amore universale, basata sul sentimento puro che avesse nell’atto omosessuale solo la sua forma veicolare: è amore nell’accezione più totalizzante del termine, non è né vuol essere una storia gay nel senso più limitante della parola. La storia di Ennis e Jack risulta toccante in quanto descrive lo svolgersi e l’evolversi del sentimento più forte di tutti, poco conta, quindi, il fatto che esso travolga e leghi per la vita due uomini, che etichettare solo come “gay” sarebbe di certo svilente.
Con delicatezza tutta orientale Lee non affronta questa vicenda d’omosessualità con retorica o intenti buonisti, ma le fornisce nuova linfa e forza ricorrendo agli elementi costitutivi del melodramma, di fortissimo impatto emotivo sullo spettatore: il loro amore deve contrastare con il resto del mondo, quello gretto e tradizionalista del vecchio west, dove devono tener tutto nascosto temendo non solo uno scandalo, ma addirittura per le proprie vite, in quanto espressione di un desiderio differente dalle norme o dalla consuetudine di società molto rigide e codificate nelle quali resistono forti inibizioni sulle forme d’amore diverse o “devianti”, l’estenuante lotta interiore nella ricerca della propria affermazione, l’inganno di sé e dei propri famigliari, la paura costante ed infine la tragedia.
Tutta la magia del film è racchiusa magistralmente nel rapporto esclusivo dei protagonisti, che perdura negli anni, mantenendo l'impetuosità dei loro istinti ed il bisogno viscerale di stare insieme nonostante sembra quasi siano inconsapevoli di cosa li spinga l’uno verso l’altro: una diversità o una colpa quasi inaccettabili che non riescono ad esprimere a parole, neppure con loro stessi. Per questo sarebbe un’esagerazione, se non una vera e propria inesattezza, sostenere che con Brokeback Mountain Ang Lee ha inventato un nuovo genere, ciò che va detto è che regista e sceneggiatori sono riusciti ad allargare la portata di questa storia d’amore tanto da farla andare al di là dell’omosessualità dentro il regno di qualsiasi amore proibito, cercato e difeso contro ogni ostacolo con tutto il dolore e la sofferenza coinvolte. Sebbene ancorato ad uno specifico periodo storico, e ad una precisa regione geografica, Wyoming 1963, il film ha un innegabile afflato universale: per certi versi è una grande pellicola vecchio stile su due uomini che lottano contro ogni aspettativa per preservare il loro amore, nonostante la vita li porti a sposarsi e ad avere dei figli. Su questa scia s’innesta una doverosa riflessione sulla poliedricità dei personaggi anche per i quali parlare di rispetto o di rifiuto della tradizione risulta davvero problematico, poiché il film si esprime in altissima percentuale attraverso il non detto, la mimica e la fisicità, facendo quindi leva da un lato sulla costruzione complessa e completa dei personaggi e dall’altro sulle innumerevoli sfumature e dettagli con cui sono impreziosite le interpretazioni straordinarie dei protagonisti. Nel nostro tentativo di scovare il rimando al classico piuttosto che l’innovazione, un primo passo d’analisi doveroso è, senza dubbio, quello di separare la sfera dei personaggi femminili da quella maschile, ed osservarli in fasi distinte.
In netto contrasto con la consuetudine dei vecchi film western, dove la donna o era la mogliettina insipida inglobata nella dimensione domestica, come Mary Starret in “Shane” o era la libertina da saloon, in entrambi i casi poco sfruttate come personaggi, le donne di Brokeback Mountain sono veri e proprie figure a tutto tondo, non solo per ciò che riguarda la consistenza del loro ruolo ma anche e soprattutto per la funzione del tutto nuova che si trovano a poter compiere. Da semplice “tappezzeria”, elemento di sfondo o mere comparse esse diventano il metronomo che scandisce tempi ed emozioni in tutta la pellicola ed il filtro attraverso il quale passano le inquietudini e grazie ai loro occhi velati di lacrime o d’insoddisfazione la storia acquista spessore e concretezza. In particolare le due mogli aggiungono un notevole carico emotivo perché permettono di contestualizzare la realtà in cui vivono i protagonisti maschili: da una parte Alma, interpretata con convincente impegno da Michelle Williams, che tenta disperatamente di tenere unita la famiglia nonostante le violente reazioni e l’aridità dei sentimenti del marito Ennis (Heath Ledger), la costante mancanza di denaro e di un lavoro decente, e dall’altra Laureen, una Anne Hathaway sempre graziosa ma talvolta poco credibile, soddisfatta della propria vita agiata e del figlio viziato ed incurante della presenza o dei bisogni del marito Jack (Jake Gyllenhaal), che anzi essa considera un peso e motivo d’imbarazzo sociale.
Più in bilico tra topoi western e innovazione contemporanea, invece, gli straordinari protagonisti maschili: Ennis Del Mar e Jack Twist, cowboy atipici, incapaci di concepire un mondo diverso da quello in cui sono nati e cresciuti, ma non per questo disposti ad accettarne le regole e i dettami. Nel descrivere le loro mansioni ed abitudini sono mantenuti tutti gli stereotipi come gli immancabili cappelli a tesa larga, gli stivali e la bocca ben cucita, ma Ang Lee li riutilizza per il riscrivere il genere riattualizzandoli: hanno cavallo e fucile sempre al fianco, è vero, ma Ennis viene disarcionato appena gli si para davanti un orso e non sa che fare, Jack è incapace di centrare un coyote a pochi metri e anche con la classica armonica a bocca è uno strazio, di fronte ai fagioli d’ordinanza si lamentano in continuazione come bambini, e, sebbene ci provino, non resistono né al freddo notturno né alla solitudine, piangono a occhi chiusi e finiscono per passare le serate davanti al falò a raccontarsi e a condividere esperienze, progetti futuri ed un sentimento trascinante. Va posto l’accento, ancora una volta, che non c’è ironia o sberleffo alcuno sul rovesciamento del tópos del cowboy, duro e seduttore, al contrario, esso diventa lo strumento indagatore di figura ormai mitica che porta alla luce la latente componente gay, tipica di un certo machismo.
Con un’interpretazione magnifica, Heat Ledger caratterizza Ennis: una strabiliante combinazione di vulnerabilità e ostinazione, il cui nome significa letteralmente “isola”: ideale per un uomo estremamente introverso e schivo, rude e fragile allo stesso tempo, che tiene ben chiuse dentro di se le proprie emozioni rendendole inaccessibili a chiunque ed incapace di viverle e di stare con chi ama di più al mondo. Da bravo cavaliere solitario, egli non parla molto, non racconta quasi nulla di sé ma nasconde al proprio interno un’agghiacciante paura dovuta ad una traumatica esperienza avuta da bambino che probabilmente è ciò che rende così doloroso e difficile l’accettazione della natura dei suoi impulsi e della sua sessualità, così che spesso egli appare come un uomo chiuso, dai modi secchi e talvolta violenti e quasi avulso dal mondo. A suo fianco, per tutta la vita, troviamo Jack, il sensibile e toccante Jake Gyllenhaal, una sorta di alterego antieroico, colui che rappresenta il nuovo west, l’unico che forse riuscirà a trovare il modo di vivere come vorrebbe accettando compromessi insidiosi.
Lee è strepitoso nel mostrare, grazie ad una macchina da presa mobilissima che segue i loro spostamenti e mutamenti negli anni, come i paesaggi plasmino i personaggi e i loro destini in modo estremamente delicato, tutto avviene tramite il ricordo di Brokeback Mountain, un luogo idilliaco nel quale si sono conosciuti ed amati Jack e Ennis, un posto che esiste al di fuori della società e oltre l’implacabile incedere del tempo, e che per loro acquista i tratti del mito, dell’angolo di paradiso a cui le loro menti ed i loro cuori fanno ritorno costantemente nella vita quotidiana per trarne forza e controllo. Emblematica di tutto il clima che si respira nel film è una battuta, che si adatta ad ogni personaggio come fosse cucita addosso a ciascuno di loro: “if you can’t fix it, you gotta stand it.”. Vale a dire se non riesci a piegare la realtà ai tuoi bisogni e ai tuoi desideri, se non hai modo di ritagliarti uno spazio tutto per te nel quale essere libero, se per quanti sforzi tu faccia scopri che non c’è modo di esprimere liberamente ciò che provi per qualcun altro, per realizzare appieno la tua vita di essere umano e vedi i tuoi sogni sgretolarsi negli anni, non puoi far altro che tener duro e sopportare, mandar giù il più amaro dei bocconi e resistere, tollerare tutto quanto e cercare di adattarvisi per quanto possibile.
Tutto nel film ribadisce ed enfatizza questo devastante dissidio interiore mediante la contrapposizione tra desiderio e realtà, tra ambiente naturale e contesto urbano nella fotografia, nel montaggio, nelle inquadrature, nella musica. A Brokeback Mountain la fotografia è luminosa, naturale, solare, limpida, calda, quasi paradisiaca nella meraviglia dei paesaggi sconfinati, maestosi, d’ampio respiro, quasi fosse simbolo della vastità dell’anima e dell’immensità del sentimento sincero, quindi abbondanza di grandi cieli aperti disseminati di nuvole, neve sulle alte cime, pendii verdissimi e boschi e ruscelli incantati. Di contro la città in Texas o il paesino del Wyoming, resi con una fotografia grigia, spenta ,quasi sgranata, come se vista attraverso l’obiettivo del tempo e annebbiata, come se osservata attraverso le lacrime del dolore: ambienti chiusi, soffocanti, claustrofobici e deprimenti che accentuano la mortificazione della quotidianità ed il piattume della menzogna. Il ritmo delle sequenze muta rispetto ai momenti di pace e d’estasi fotografica degli esterni, Rodrigo Prieto e Ang Lee sostituiscono a sequenze più veloci, confuse e quasi caotiche, che mostrano perfettamente lo smarrimento ed il timore dei protagonisti, fino a scemare in sequenze statiche, lente e monotone che trasmettono il senso d’insoddisfazione, di rimpianto di chi sa che non potrà mai raggiungere una realizzazione, personale e sociale, degna di tale nome. E così la concentrazione e la cura di Lee e del suo straordinario direttore della fotografia Prieto si danno nell’opera di descrivere l’incantevole paesaggio naturale, in particolare le luci e le ombre dei declivi di Brokeback, che nella loro magnificenza si fondono con i personaggi quasi a raggiungere quella sintesi estatica e romantica tra uomo e natura così cara alla tradizione del vecchio West.
Basti pensare alla scelta dell’ambientazione: Wymonig, già location, nel 1951, per le riprese di “Shane - Il cavaliere della valle solitaria”, pellicola che consacra il genere western, e da molti considerato una sorta di archetipo seppur poi accusato di eccessiva accademicità stilistica. La pellicola di Ang Lee, in verità, è stata girata in Canada, tra Cowley, Fort macLeod e Calgary, ma la scelta filmica del Wyoming, lo stato meno popolato degli Usa, che vanta poco più di 100 anni di storia ufficiale e nel quale ancora oggi nulla è mutato dall’epoca da secolo scorso, dove la stupefacente natura delle montagne rocciose è rimasta intatta, dove la carriera più ambita è tuttora quella dell’uomo che sussurra ai cavalli, l’horse whisperer, ovvero l’esperto del comportamento animale che si occupa soprattutto di domare i cavalli facendoli abituare agli umani, è senza dubbio il più sincero degli omaggi possibili alla tradizione del cavaliere solitario che tanto peso ha avuto nella costruzione dell’identità dell’uomo nordamericano.
A questo riguardo, mi sembra significativa una breve riflessione. Il mondo del west, sia in senso filmico che in senso storico, rappresenta, insieme al periodo dei Padri Pellegrini e del Mayflowers, il tentativo di una nazione giovane, seppur già al culmine del suo potere, di plasmare il senso d’appartenenza e d’identità nazionale dei propri cittadini attraverso la rielaborazione mitica del proprio passato, e l’autopoiesi di un intero reticolato mitologico d’importanza vitale, che comprende, tra gli altri, il mito del “self made man” e il mito della frontiera. E proprio a tale binomio, imprescindibile dai film western, appunto, Ang Lee si rifà per rappresentare qualcosa di nuovo: ancora una volta gli stilemi del genere vengono stravolti per la loro riattualizzazione. Il mito della frontiera nella cultura tradizionale statunitense indicava idealmente quel limite oltre il quale esiste la selvatichezza della natura e dei popoli in netta opposizione a quel ad di qua rappresentato dalla civiltà americana e sino al primo dopoguerra essa rimase intesa come il potenziale di espansione e di risorse illimitate del paese, venne concepita come un insieme di difficili ostacoli il cui progressivo superamento contribuiva a formare il carattere della nazione statunitense attraverso una forte presa di coscienza tutta americana della propria identità. Ecco quindi l’ostinazione e la pazienza dei pionieri, delle carovane di famiglie che si spingevano sempre più a ovest in cerca di fortuna, che con fatica sopravvivevano forzando la natura ed il mondo che tanto aveva da offrire ma che così difficilmente concedeva, come il caso degli Starret in “Shane”, che cercano di sopravvivere onestamente ma con fatica, ma anche come i genitori di Jack in Brokeback Mountain e la famiglia di Ennis prima del divorzio. Ma questa difficoltà di sopravvivenza è la stessa che incontrano i due protagonisti del film di Ang Lee: per loro la natura da forzare è interiorizzata, è la loro, o meglio è il loro modo di pensare alla propria natura così come l’ambiente da cui provengono e tutto il mondo che conoscono hanno fatto sì che fosse giusto pensarla. Per Ennis e Jack, però, la loro frontiera non arriverà mai, sarà inseguita per tutta la vita ostacolo dopo ostacolo e sarà una lotta che li porterà ad assumere un aspetto quasi da sopravvissuti di un’epoca ormai passata. E per il triste personaggio di Heat Ledger il passaggio sarà ancora più duro perché egli incarna inequivocabilmente il vecchio west, è il prototipo del self made man, cresciuto e formatosi da solo, senza casa, senza radici, che può contare solo su se stesso, è l’erede di quel Shane, ambiguo e solitario che con quel misto di bontà d’animo, di senso della giustizia e di violenza era qualcosa in più di un cowboy o di un pistolero, in grado di affascinare le donne per i suoi modi decisi, gli uomini per l’integrità e il senso dell’onore ed i ragazzini come Joy Starret, ma anche come Jack Twist per il senso di sicurezza eroica. Ennis rappresenta tutto ciò ma in un’epoca in cui questo non ha più valore, in cui “la Frontiera” non esiste più e ciò che rimane è un uomo fragile e terribilmente solo nella miseria senza via d’uscita nella provincia americana d’oggi, più precaria che mai.
Sotto sotto, qualche difetto Brokeback Mountain l’avrà anche, ma tra lo scintillio abbacinante del meritatissimo Leone d’Oro per il miglior film alla 62° Mostra del Cinema di Venezia e l’umida trasparenza della commozione sincera quel che si riesce a vedere con certezza è solo il più grande dei pregi, vale a dire quello di un film che non sgomita per divulgare un messaggio di tolleranza o d’accettazione del diverso, ma con il massimo della sincerità e della passione concepibili si concentra sul regalarci una bellissima storia. D’Amore.


Marta Ravasio

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