Mucche alla riscossa

E' curioso potersi accorgere di come, per l'ultimo prodotto della sua leggendaria animazione, la Walt Disney Pictures abbia optato per uno stile visivo che, rifiutando la gelida perfezione multidimensionale del computer, si avvicina stranamente a quello della rivale Warner Bros, madre dei Looney Toones che sul campo dei cartoon ha sempre sofferto la concorrenza del tocco di zio Walt ed eredi.
Uno stile che sconfina dal campo del visuale a quello della sostanza, se si tiene conto di quanto la piattezza delle dimensioni si rifletta su quella del plot e dei chiaroscuri della narrazione.
La grossa e grezza mucca Maggie ha perso la sua fattoria a causa delle scorribande del perfido fuorilegge Alameda Slim, ladro di mandrie mago di uno speciale yodel che ipnotizza le vacche. Quando la nuova fattoria cui è stata venduta rischia di essere espropriata a causa dell'ipoteca che pende come una spada di Damocle, deciderà di partire con le "colleghe", la molto British Miss Caloway e la stonata Grace, per catturare il farabutto, incassare la taglia e salvare la casa.
Nella sua lunga frequentazione del mondo animale la Disney è sì passata attraverso l'elogio della vita bucolica (molti passaggi del Re leone) o la rappresentazione fedele dell'universo faunistico (ne è esempio il recente Alla ricerca di Nemo); ma con Mucche alla riscossa fa propria l'abitudine - cara appunto alla Warner - di stilizzare e ironizzare su fantasiose trovate dallo sfondo agreste (non torna certo in mente la virgiliana cornice campestre di Nonna Papera, così idealizzata da sembrar creata in un'egloga).
Scorciatoie euristiche di questo genere rendono meno ostica la prova degli autori, che riempiono Mucche alla riscossa di humour immediato. Non c'è animale di Angolo di Paradiso - il fazzoletto di terra a rischio - che non sia un (prevedibile) surrogato della figurina: il caprone scontroso e polemico, le galline stupide e facilone, i porcellini irresistibilmente attratti dalla maleducazione (Maggie impartisce loro lezioni di rutto).
Ma è proprio in questo modo che si perde l'essenza della tradizione migliore e si rende il risultato simile agli episodi di un cartoon per la televisione.
L'esempio che costituiscono i risultati dell'animazione degli anni Novanta pare messo da parte con sussiegoso sdegno. Eppure dietro il successo che con la fine degli anni Ottanta aveva riportato in auge il marchio disneyano c'erano scelte radicate in una consapevolezza che prendeva le mosse da un approccio radicalmente differente. Erano ritratti a tutto tondo quelli dei personaggi che davano vita a La sirenetta (1989), La Bella e la Bestia (1991, non a caso il primo film d'animazione della storia a ottenere la nomination all'Oscar come miglior film) e Aladdin (1992), in cui il confine fra il mondo dei bambini e l'età adulta non era marcato in modo così netto. Facevano sognare le tematiche sempre attuali, che trattavano anche lo spettatore più giovane da adulto, con un'immersione in sentimenti reali - conditi con l'ottimismo che sceglieva il lieto fine anche per la favola triste della Sirenetta di Andersen - che Mucche alla riscossa semplifica e riduce a imitazione.
Risulta perduta la vena fertile arrivata fino al 1998, anno in cui la Disney sfornò il riuscitissimo Mulan e, forse per la prima volta, sul piano dell'animazione si trovò ad affrontare il colosso della spielberghiana DreamWorks, che mise in campo il (letteralmente) faraonico Principe d'Egitto. Culminava la voglia di film animato autentico e non privo d'impegno; Mulan era una giovane del Giappone antico, anticipatrice del femminismo moderno che sfidava gli uomini sia in intelligenza che sul campo (ingannava un esercito intero travestendosi da uomo per andare in guerra al posto dell'acciaccato padre), il principe d'Egitto altri non è che Mosè (la DreamWorks si affidò addirittura al canone biblico dell'Antico Testamento). Non è superfluo notare che fu il film della DreamWorks a ottenere l'Oscar per la migliore canzone, andato al duetto di Mariah Carey e Whitney Houston When You Believe; il pezzo era opera di Stephen Schwartz, già navigato e oscarizzato autore disneyano che, in coppia con il veterano Alan Menken - che firma anche la colonna sonora di Mucche alla riscossa - era già stato creatore delle canzoni di Pocahontas e Il gobbo di Notre Dame. Un premio, questo, che negli anni precedenti la Walt Disney Pictures aveva fatto l'abitudine a vincere. Insomma, trionfava l'animazione che rifiutava la semplicità infantile, che permetteva ai bambini di portare al cinema i genitori.
Ma con Mucche alla riscossa l'aridità dello sforzo creativo asciuga il contenuto, riducendolo a svagato intrattenimento dalle fattezze caricaturali. Alla gracilità della storia (non sorprende che il film duri solo 80 minuti) non riescono certo a supplire i ripetuti omaggi cinefili; si va da Tarantino a Sergio Leone, ma le divertite citazioni penzolano come ricami su un tessuto sbiadito, senza riuscire a ricreare l'effetto d'entusiastica ammirazione che suscitavano i rimandi in Alla ricerca di Nemo (lì c'era addirittura un riferimento a Psyco, ma anche prestiti di casa come topos da Bambi, Il re leone e La Sirenetta). Tant'è che qui il momento più divertente risulta essere l'esibizione del malvagio Alameda Slim nello yodel ipnotizzante, una sequenza pseudo-onirica in cui uno stuolo di mucche dagli accesi colori evidenziatore può far tornare alla memoria gli elefanti dalla variegata pigmentazione che vedevano Dumbo e il topo Timoteo, in preda alla sbornia, nel cartoon del '41.
Grande spreco - si fa per dire - di star nel cast, ovviamente solo vocale; da Judi Dench per Miss Caloway a Roseanne Barr per Maggie e Jennifer Tilly per Grace (in Italia doppiate rispettivamente da Valeria Valeri, Cinzia Leone e Marina Massironi), fino a Cuba Gooding Jr., che presta la voce al borioso cavallo Buck (da noi Massimiliano Alto).


Alessandro Bizzotto

Mucche alla riscossa

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