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Intervista - Il Texas di Fausto Paravidino

Fausto Paravidino ostenta una sicurezza e una determinazione che vanno oltre i suoi 28 anni, e una dialettica che molti registi di esperienza e mestiere gli invidierebbero. Da uomo di teatro qual’è sa gestire la “scena” e di fronte alla platea di critici pronti ad incalzarlo con domande svariate e complesse, il piccolo grande, Paravidino, ha sempre una risposta per tutti, talvolta sconcertante, oscillante tra ampie spiegazioni narrative che hanno il respiro sospeso dei paesaggi di Pieter Bruegel a dettagliate puntualizzazioni, dallo sguardo “macro”, dilatato e grottesco di una foto di Martin Parr.
Spesso spiazzanti come il suo film, ma senza finali aperti…

Qual è stato il personaggio di "Texas" più difficile da costruire?
Paradossalmente, nonostante la loro apparente semplicità, i personaggi maschili sono stati i più difficili da costruire. Perché essendo meno rappresentati sono meno stilizzati per cui richiedevano più stilizzazione da parte nostra. Tra i protagonisti poi il personaggio di Cinzia è molto "naif" per cui ha preso una sua direzione, così come quello di Davide, che è abbastanza archetipico. Sicuramente Gianluca (interpretato da Riccardo Scamarcio ndr) è stato forse il più difficile da portare in scena. Un personaggio negativo, antipatico, soprattutto per quello che fa, e quindi deve essere compensato da un 'plus valore' (“come mai le donne lo amano?”, “come mai gli amici lo riconoscono come leader?”) e la costruzione di questo 'plus valore' è stata difficile, come capire semplicemente qual’era la sua specificità.

E fra i personaggi femminili?
Sicuramente Elisa, anche perché all’interno della storia non racconta la sua" storia. Il suo vero accadimento avviene alla fine del film ed è un accadimento passivo...non si può costruire un personaggio solo in funzione di questo per cui è stato difficile caratterizzarla.

Si potrebbe definire "Texas" un film di paesaggi?
Mi piacerebbe molto se si dicesse questo del mio film. Quello di "Texas" è un paesaggio fisico, reale, ma anche un paesaggio dell’anima.

Per caratterizzare questi paesaggi hai fatto ricorso ad immagini di pittori come Edward Hopper. Quanto è stato importante in questo film l'aspetto iconografico? E nel tuo cinema?
Moltissimo, non so poi quanto si veda, si riesca a cogliere. Perché poi quando uno arriva sul set le cose cambiano. I set non si costruiscono, si fotografano e in minima parte rispetto alla realtà. Per cui in certe inquadrature spesso prevale semplicemente la tua sensibilità nel vedere le cose, nel cogliere determinate suggestioni.

Che spesso sono sedimentate e alcune volte inconsapevoli. E se volessimo cercarle in “Texas” e dargli un nome?
Beh nel film sicuramente c’è molto Hopper, soprattutto nei titoli di testa, in inquadrature molto “hopperiane” abbastanza ricercate e poi Bruegel, ad esempio nel paesaggio con i protagonisti che avanzano nella neve che chiude il film (forse un chiaro richiamo ai "cacciatori nella neve del pittore fiammingo) ma abbiamo voluto citare anche un fotografo inglese, Martin Parr, capace di focalizzare immagini spesso strane, grottesche, molto ravvicinate. Noi, nel raccontare il rapporto uomo-paesaggio volevamo fare, e l’abbiamo fatto - sottolinea quasi rendendosi conto solo in questo momento della potenza iconografica di certe “forzature” del suo film - allo stesso modo, quindi per slatare abbastanza spesso da inquadrature molto larghe a particolari abbastanza stretti, senza tante fasi intermedie.

Cosa che siete riusciti a fare molto bene.
Grazie...

Abbiamo letto dell’impostazione teatrale data al film, la sua suddivisione in “atti”, i rimandi a Cechov e la volontà di voler escludere il "IV atto". Ci spieghi meglio questa scelta?
Non volevamo certo perfezionare Cechov - ride sornione -. In realtà c’è una struttura determinata nelle commedie, normalmente iniziano tutte bene; si scrivono perché colpiti da determinate storie, "innamorandosi" di un certo aspetto dell'umanità, e tutto questo normalmente convoglia verso una morale, una soluzione, procedimenti che "datano" la commedia. Dall’ultimo atto si capisce quando è stata scritta e questo finisce per essere una chiusura rispetto all'onestà con la quale nel primo atto eravamo "innamorati" della nostra storia. Quello che volevamo fare era mantenere l’osservazione della realtà e l’intreccio che ne consegue senza arrivare ad un finale che per quanto fatalista diventa poi comunque una morale, in ogni caso. Per cui abbiamo cercato di costruire una storia che senza essere "monca" ci permettesse di lasciar compiere lo sviluppo emotivo della storia lasciandola aperta, in sospeso…

Come trattenendo il respiro, per poi lasciarlo andare lentamente.


Ottavia Da Re
In collaborazione con Marta Ravasio



Per approfondimenti:
Fandango Film: www.fandango.it

Martin Parr – sito ufficiale:
http://www.martinparr.com

(14/10/2005)


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