Fahrenheit 9/11
Non è satira, come molti hanno scritto e detto. Il fortissimo documentario, un film verità del premio Oscar (vinto
per Bowling a Columbine) Michael Moore, può essere considerato una denuncia vera e propria.
Autentico atto d'accusa contro la persona dell'attuale presidente degli Stati Uniti d'America, George W. Bush, e la
sua politica, Fahrenheit 9/11 spalanca con disarmante lucidità l'armadio del governo americano per portarne gli scheletri
alla luce; una lama che per centododici minuti ininterrotti fende e lacera la patina ufficiale delle elezioni e delle
decisioni politiche del figlio di Bush Senior.
L'avversione del regista nei confronti del presidente eletto nell'autunno 2000 dopo spogli e infiniti conteggi dei
voti non è cosa nuova. Quando nel marzo 2003 ricevette l'Oscar dalle mani di un'entusiasta Diane Lane, Moore non esitò a
tuonare dal palco del Kodak Theater: "Abbiamo eletto un presidente fittizio che ci manda in guerra per ragioni fittizie!
Vergona!". E accanto al cinema, il regista di Roger and Me (1989, premiato ai Festival di Toronto, Chicago e Vancouver) e
di The Big One (1998, premiato ad Aspern e a Denver) ha usato anche l'arma della parola scritta nel portare avanti le
sue ferme idee politiche: la sua opera di saggistica Stupid White Man (2001), premiata con il British Book Award, è
rimasta più di un anno nella lista dei bestseller del New York Times; Ma come hai ridotto questo paese? (2003) ha
detenuto il primato nella classifica americana dei bestseller per sei settimane.
Senz'ombra d'incertezza, risoluto, e dotato di solide capacità narrative, Michael Moore con Fahrenheit 9/11
punta il dito contro il presidente americano passando al setaccio i quattro anni del suo mandato alla guida degli Stati
Uniti. Si parte con le torbide elezioni, oscurate da ombre di illegalità, e si prosegue - in crescendo - portando in
superficie legami nascosti e interessi occultati, per arrivare alle drammatiche conseguenze del conflitto in Iraq e allo
strascico di morte e sofferenza che la guerra ha steso sulle famiglie meno abbienti del paese. I rapporti dei Bush (padre
e figlio) con la famiglia Bin Laden, che vedeva in America alcuni suoi rappresentanti l'11 settembra 2001, lasciati però
immediatamente espatriare; i legami con l'Arabia Saudita; le lacune nel sistema di sicurezza statunitense e le allarmistiche
paure di attacchi terroristici. Tutto questo e molto altro: pieghe nascoste della politica estera di Bush e collaboratori.
Ce n'è da procurare i brividi.
Lo stile comunicativo di Michael Moore è di efficacia comunicativa immediata: preferendo astenersi dall'uso degli
artifici narrativi del racconto filmico, il regista costruisce un'opera documento densissima in primis di contenuti,
stoccate precise, domande acutissime, reportage esclusivi e testimonianze di persone direttamente coinvolte negli eventi.
Vibrante d'indignazione (che trasuda come conseguenza e mai come elemento costitutivo), Fahrenheit 9/11 è però
diretto da un autore perfettamente in equilibrio nel multiplo ruolo di cineasta, ricercatore e accusatore. Conscio in ogni
momento del peso del suo lavoro, Michael Moore riesce così a far convivere un effetto straniante e soprattutto spiazzante con
gelida e irriverente ironia. L'abilità di Moore si concretizza così nel mettere in scena la denuncia ricavandone un film
che, nella prima parte, sa spesso rivelarsi divertente nel suo carattere di parodia impegnata.
In un'occasione ufficiale, al richiamo di Moore: "Governatore Bush, sono Michael Moore!", l'interessato risponde:
"Fai il bravo! E trovati un lavoro vero." Un'uscita che ha l'effetto di un boomerang e appare quantomeno ridicola, dal
momento che il montaggio di Fahrenheit 9/11 la pone nel bel mezzo dell'excursus che illustra come più del 40% delle ore
trascorse da Bush durante il suo mandato presidenziale sono state spese in vacanza; fra ranch e campi da golf (vediamo
addirittura il presidente che chiede ai compagni di gioco di dirgli che il suo è stato un bel colpo), Bush parla dei suoi
cani, di tane d'armadillo e di caccia. Battute affilate come lame, controsensi, assurdi paradossi. E nessuna creazione
dell'estro del regista; solo la sua capacità di raccontare.
Con l'occasione, Moore informa anche in materia di eventi cui cronaca e mezzi d'informazione non hanno dato
particolare rilievo. Come il fatto che, contrariamente a quanto stabilito dalla tradizione, Bush fu costretto a rinunciare
alla passeggiata fino alla Casa Bianca, il giorno dell'insediamento, perchè quel giorno il clima era così teso a causa delle
manifestazioni di protesta che sull'auto presidenziale volarono addirittura uova.
Ma poi il film s'impenna, mostra l'orrore della guerra, la falsità degli allarmi terroristici e i loro secondi fini
(creare consenso alla guerra secondo le opinioni espresse), il dolore che lacera le famiglie dilaniate dai lutti conseguenti
all'attacco delle Twin Towers (secondo Moore evitabile se solo Bush non avesse ignorato numerosi avvertimenti) e soprattutto
all'offensiva sferrata contro l'Iraq dagli U.S.A. Durissimo e solenne, profondamente rispettoso della sofferenza dei genitori
che hanno lasciato i figli arruolarsi per mancanza di mezzi al fine di garantire loro istruzione. E quando Michael Moore,
accompagnato da un militare tornato dall'Iraq, avvicina personalmente i membri del Congresso americano per chieder loro
perché non mandino in guerra i loro figli per primi (solo un membro in tutto il Congresso ha figli nell'esercito), alcuni
degli occhi che lo guardano come se fosse pazzo paiono quelli di una nobiltà d'ancient régime pre-Rivoluzione Francese.
L'opera, trionfatrice al 57° Festival di Cannes dove nel maggio 2004 ha vinto la Palma d'Oro come miglior film,
finisce così per essere una scossa più forte di ogni comizio e di ogni marcia, invito forte e impavido a una presa di
coscienza preziosa, sempre necessaria.
Alessandro Bizzotto
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